Il sistema che ci ha portato in questa crisi è l’unico che abbiamo. Possiamo discutere e incazzarci per quanto il capitalismo sia iniquo e anti-sociale, ma ad oggi non esiste un’alternativa organica.
Ci sono migliaia di esempi che dimostrano come si sia riusciti a conciliarlo con democrazia ed equità nella distribuzione di ricchezze e opportunità: basti pensare ai Paesi scandinavi o alle comunità autogovernate e sostenibili in India. Chi parla di demolire il capitalismo o la finanza dalle fondamenta, dimentica spesso che dentro quello stesso sistema ci vive. Con cosa potrebbe rimpiazzarlo?
Come sottolineato da molti analisti – tra cui Nouriel Roubini nel suo La crisi non è finita – la recessione del 2007 è stata generata principalmente dalla mancanza di regole adeguate nel mondo della finanza. In questi anni, in assenza di direttive idonee nel sistema finanziario, si è pensato che piani sempre più massicci di salvataggio pubblico e spesa in deficit avrebbero potuto salvare le economie occidentali dalla crisi e dall’incertezza, senza toccare i pilastri della deregulation avviata da Reagan negli anni ’80. Con il risultato che la debolezza si è estesa ai debiti degli Stati, i quali hanno impiegato centinaia di miliardi di dollari nei salvataggi: numerose nazioni si sono trovate costrette a operare tagli nei bilanci, con un impatto negativo su occupazione e crescita. Queste misure, tra l’altro, non sono riuscite a calmare i mercati e gli operatori finanziari, ansiosi di portare a casa profitti nel breve termine.
Se vogliamo uscire da questa spirale, dobbiamo ragionare sulle regole da dare ai mercati per evitare che crisi sistemiche di queste proporzioni possano ripetersi. Uno dei problemi principali è la commistione o la collusione tra regolatori e regolati. In altre parole: chi ha il compito di fare le regole (i politici) è spesso coinvolto negli affari delle imprese che dovrebbe regolare, o viceversa capita che le imprese finanzino le campagne elettorali. Ma succede anche di peggio: che i politici vengono appoggiati, per poi restituire il favore sotto forma di appalti e di regole compiacenti.
Da secoli pensatori liberali come Adam Smith o John Locke hanno sottolineato la netta distinzione che dovrebbe esistere tra Stato e Mercato. Negli Usa i maggiori finanziatori delle campagne elettorali dell’ultimo decennio sono state le società finanziarie; questo spiega la riluttanza del Congresso a emanare qualsiasi regolamento efficace per limitare le prese di rischio eccessive, le speculazioni illegali, la creazione di modelli distorti o che non tengono conto di eventi inattesi – i famosi cigni neri.
In Italia, la collusione tra Stato e Mercato emerge in maniera evidente dagli enormi conflitti d’interesse: Berlusconi e Montezemolo fanno il paio con i colossi pubblici e le municipalizzate, usati come dispensatori di appalti “agli amici” e come uffici di collocamento a fini elettorali.
Un altro grave problema è l’asimmetria nello scenario internazionale nel rispettare le regole del gioco: o esse valgono per tutti, o vi sarà un’inesorabile spinta al ribasso generata da chi queste regole non le accetta. Non ci riferiamo solo a episodi come gli scandalosi sussidi all’agricoltura di Usa e Ue – che tengono fuori dal mercato mondiale l’Africa e i Paesi in via di sviluppo. Parliamo di condizioni di lavoro inaccettabili, come quelle degli operai tessili (per esempio di H&M) nel Sud-est asiatico.
Se protestiamo contro le delocalizzazioni, dobbiamo innanzitutto fare pressioni contro quegli Stati che non applicano le regole del gioco – cioè diritti umani e diritti del lavoro. Il problema è che queste regole ancora non sono formalizzate a livello globale: il mercato è globale, ma le regole sono locali. Il Wto ha promosso l’apertura del commercio tessile con la fine dell’accordo multifibre (2005), ma nessuno ha pensato di responsabilizzare e coordinare gli Stati nel darsi simili regole globali sui diritti del lavoro.
In un certo senso, le battaglie per i diritti minimi dei lavoratori in Cina hanno un impatto forte sulla disoccupazione anche qui nel mondo occidentale. È ora che, assieme a problemi globali, s’imponga nell’agenda internazionale anche una responsabilità globale. Non si tratta di discorsi “di destra” o “di sinistra”; si tratta d’impedire che altri esseri umani muoiano in fabbrica, si suicidino per il troppo lavoro e che i loro salari siano superiore al livello di sussistenza. Le loro battaglie devono essere per forza le nostre.
Chi si batte per cambiare davvero le cose deve riconoscere che un governo dei fenomeni globali – un governo democratico mondiale – è oggi necessario. Ciò significa ripensare gli strumenti della democrazia – senza cadere nel populismo o nel peronismo – e far sì che a livello internazionale si condividano delle regole minime su commercio, finanza, lavoro, istruzione, ambiente, diritti umani.
Le istituzioni da coinvolgere ci sono già: l’Onu ha già fornito degli standard di regolamentazione minima su diritti umani, giustizia internazionale e commercio (attraverso il Wto). L’Ue e il G20 stanno lavorando a diversi fondi di salvataggio, ma si occupano poco delle nuove regole da dare ai mercati.
Tuttavia queste istituzioni soffrono di un deficit di democrazia e rappresentatività. In parole povere: a contare sono ancora solo gli Stati nazionali. Se non si vuole entrare in un periodo di crisi ricorrenti e d’incertezza permanente, bisogna fare riforme globali. E farle in fretta. Le istituzioni esistenti sono gli unici forum multilaterali dove si può chiedere da subito che vengano messe in agenda tematiche globali. Lavorare dentro le istituzioni per cambiare la loro missione – o per invertirne la direzione – sarà sicuramente un lavoro duro e faticoso; ma è l’unica chance concreta che abbiamo oggi.