«Dittatore», «Fascista», «Violatore dei diritti umani». Questi alcuni degli epiteti che stampa e associazioni italiane hanno rivolto a un nuovo autocrate, reo di avere ristabilito in Europa un vero e proprio regime illiberale. Peccato che, a essere imprecisi, siano stati i tempi e il destinatario di tali feroci attacchi.
A essere dipinto come il nuovo Mussolini è Viktor Orban, premier ungherese, criticato per una serie di riforme discutibili con cui il partito di maggioranza – Fidesz – ha di fatto aumentato a dismisura i suoi poteri nelle dinamiche interne della Repubblica magiara.
Sia chiaro: per Orban poche scuse. La nuova Costituzione ungherese entrata in vigore il primo gennaio – in cui il Partito socialista, la principale forza dell’opposizione, è etichettato come erede diretto della dittatura comunista – in alcuni punti cozza evidentemente con le regole Ue ed è lesiva dell’assetto giudiziario, bancario e democratico di Budapest: quando, ad esempio, si parla di controllo dei media critici con la linea della maggioranza; o quando di dà al premier il diritto di nominare membri influenti della Banca centrale ungherese e del Consiglio superiore della magistratura.
Legittima ogni critica e comprensibile anche la gogna mediatica che ha portato Orban a chiedere in fretta e furia un colloquio con Bruxelles, al fine di risolvere la questione con i consigli dell’Unione Europea – nella quale l’Ungheria vuole permanere, pur non volendo adottare la moneta unica.
Tuttavia stupisce come tale mobilitazione internazionale, particolarmente feroce in Italia, non si sia registrata dinnanzi a quanto accade in Ucraina: Paese europeo – ma non ancora membro Ue a causa della sudditanza alla Russia dell’asse franco-tedesco, che attualmente guida l’Europa – in cui negli ultimi mesi si è registrata un’involuzione democrazia ben peggiore di quanto avvenuto in Ungheria.
Il presidente ucraino, Viktor Janukovych, non ha definito l’opposizione democratica «erede del fascismo», ma ha provveduto a una feroce repressione, con interrogatori, processi e persino arresti dei maggiori esponenti dello schieramento avverso.
Tra essi, la leader del campo arancione: l’ex primo ministro Julija Tymoshenko. Deportata in un penitenziario periferico a Kharkiv, deve ora scontare, lontano da politica e famigliari, sette anni di detenzione in isolamento, per abuso d’ufficio nel corso delle trattative per il gas del gennaio 2009 con il suo collega russo, Vladimir Putin. Tale verdetto è maturato dopo un processo-farsa, in cui la difesa è stata sistematicamente privata di ogni diritto e le accuse sono state costruite su prove montate ad hoc, addirittura datate 31 aprile. Il tutto con la Tymoshenko già reclusa in isolamento, in misura cautelativa.
Ma non è tutto: Janukovych ha anche provveduto alla sostituzione dei vertici della magistratura con persone a lui fedeli, mutato la Costituzione con un colpo di mano –accrescendo a dismisura i propri poteri a scapito di una Rada oggi priva di significato – e tollerato brogli nelle elezioni amministrative dell’ottobre 2010.
Non se la passano in maniera idilliaca nemmeno giornalisti e media indipendenti. La televisione 5 Kanal – di proprietà di Petro Poroshenko (il maggiore finanziatore della Rivoluzione arancione) – è stata oggetto di attacchi da parte delle autorità, intenzionate a sottrarle diritti di emissione a favore delle televisioni del capo dei servizi segreti, Valerij Khoroshkovs’kyj. Inoltre il colonnista dell’autorevole Ukrajins’ka Pravda, Mustafa Najem, è stato minacciato in diretta tv da Janukovych per aver posto delle domande “scomode” sull’utilizzo di denaro pubblico da parte del capo di Stato per i propri interessi privati.
Dinnanzi a tale quadro, è lecito chiedersi che cosa spinga gli italiani a mobilitarsi in presidi, campagne e “pezzi al veleno” contro Orban; quando poi s’ignora ciò che sta avvenendo in Ucraina. Dopotutto sulle rive del Danubio non si è arrivati a spostare la politica dal Parlamento alle aule di tribunale – quando non alla prigione – come invece sta accadendo sulle Rive del Dnipro. Si spera che sia tutto legato ad assenza d’informazione e che non sia invece una presa di posizione politica, tanto meschina quanto politicamente disonesta.
Orban è il leader di Fidesz, partito di destra alleato in Europa solo con i Tory inglesi, i cechi del Partito democratico civico e i conservatori polacchi di Diritto e giustizia. Pochi amici, spesso aspramente criticati non solo dalla destra moderata, ma sopratutto dalla “sinistra al caviale”, che di frequente adotta questi tre soggetti come nemico comune da attaccare per distogliere l’attenzione dai propri problemi interni.
Janukovych è inoltre a capo del Partija Rehioniv: questo partito – a cui appartengono presidente, premier e quasi tutti i membri del Consiglio dei ministri – è egemone nel Paese, finanziato dagli oligarchi dell’Est Ucraina e, in Europa, è legato da un patto di collaborazione con i Socialisti europei (schieramento europarlamentare che raccoglie le principali forze della sinistra del Vecchio continente, tra cui il Parti Socialiste francese, la Spd tedesca, ed il Partito democratico di Bersani).
La difesa della democrazia e dei diritti umani dovrebbe essere un principio apartitico e indipendente da logiche di politica interna. Pertanto è auspicabile che chi oggi si schiera contro Orban – e non fa nulla per richiedere la liberazione della Tymoshenko e il ripristino delle libertà occidentali in Ucraina – sia solo vittima di una scorretta informazione. Complici i media del Belpaese, che spesso non sanno nemmeno dell’esistenza dell’Ucraina e del crollo dell’Unione sovietica.
Altresì, sarebbe davvero mortificante constatare come la vicenda ungherese venga strumentalizzata per un mero calcolo basato sulle logiche interne di Palazzo Chigi, e come insigni movimenti per la difesa della democrazia nel mondo, finiscano per essere pedine di un gioco sporco e disonesto.
Matteo Cazzulani