Infrastrutture insufficienti, scarsa mobilità sociale, un tasso di natalità tra i più bassi d’Europa… associare la parola problemi con il termine Italia è ormai un “leitmotiv” che non stupisce nessuno. Eppure, a volte, si tratta di un pessimismo (parzialmente) ingiustificato. Prendiamo ad esempio l’argomento università: siamo sicuri che le cose vadano così male?
A questo proposito, i dati sono piuttosto ambigui e vanno interpretati. Se tra le “top 100” non c’è neanche un nome italiano, ci sono tanti altri numeri che fanno ben sperare per il nostro sistema. Un rapporto prodotto dalla Royal Society di Londra ci dice che – tra il 1996 e il 2008 – il nostro Paese ha aumentato del 32% il numero di pubblicazioni. Il dato fa ancora più impressione se pensiamo che nessuno tra i Paesi del G8 ha fatto meglio. Il documento mostra come, a livello globale, negli ultimi anni gl’investimenti per la ricerca nel mondo siano nettamente aumentati. Mentre gli articoli giapponesi e statunitensi hanno perso peso sul numero totale, quelli italiani hanno mantenuto il loro valore costante. La cosa è sorprendente, se si pensa che in Italia gl’investimenti nella ricerca sono aumentati solo del 1,5 per cento. L’unica spiegazione è l’aumento della produttività scientifica.
Ma le buone notizie non sono finite. Le tabelle parlano dei nostri ricercatori come molto “internazionalizzati”: in dieci anni il tasso d’internazionalizzazione è aumentato di 12 punti. Nel 2008 il 40% dei lavori scientifici italiani aveva un partner straniero; otto anni prima solo il 27 per cento .
E ancora: prendiamo il dato dei ventiduemila ricercatori italiani che lavorano all’estero. Questi possono essere visti come cervelli in fuga; ma anche come la prova che i nostri studenti hanno una buona preparazione, che sono premiati e riconosciuti in molte istituzioni universitarie straniere.
Se tutto ciò non bastasse a convincere il lettore abituato a sentir parlar male dei nostri atenei, consigliamo la lettura di un articolo dell’Economist, dove l’Italia appare settima nella classifica delle citazioni (cioè nella percentuale di citazioni tra gli articoli scientifici). «Non male», scrive il Fatto quotidiano, «se pensiamo che chi ci sta davanti investe in questo settore una porzione del proprio Pil superiore alla nostra».
Come ogni prodotto d’eccellenza, le pubblicazioni nostrane uniscono qualità (numero di citazioni) e quantità (totale). Scimago (gruppo di ricerca di alcune università spagnole, che valuta entrambi gli aspetti) ci assegna una più che dignitosa ottava posizione mondiale. Avremo pure davanti Germania, Francia, Stati Uniti e Cina; ma si tratta comunque di un buon risultato.
Tutto ciò sembra avere un significato inequivocabile. Non ci sono dubbi che ai nostri atenei manchino risorse, che non ci sia ricambio del corpo docenti e che intraprendere la carriera accademica sia una strada ardua (vedi precariato e poca meritocrazia). Al di là di questi inciampi però dal bel Paese provengono studenti aprrezzati in tutto il mondo. Gli italiani non sono bravi solo a fare la pizza o il vino: sanno anche fare ricerca e per questo bisogna ringraziare il nostro sistema universitario e quello scolastico tout court.
Anche se a casa nostra in molti la danno per spacciata e si lamentano di lei, la nostra Università ha ancora carte da giocare e soprattutto ha il diritto di essere salvaguardata dai politici e dai media.