«Il governo italiano considera la Cina un importante partner politico e non soltanto un protagonista dell’economia». Stupiscono le recenti dichiarazioni del ministro degli Esteri, in visita ufficiale in Cina.
Lasciano basiti perché – coincidenza – vengono rilasciate in un periodo in cui il governo di Pechino si sta dimostrando tutto fuorché uno Stato retto da principi di democrazia e libertà. Quindi difficilmente “un importante partner politico”.
Il primo caso di cronaca fa riferimento all’irrisolta “questione tibetana”. La reazione cinese alla decisione di Barack Obama di ricevere il capo spirituale dei tibetani, lascia infatti ben poco spazio all’immaginazione: «Ci opponiamo fermamente a qualsiasi incontro di alti esponenti governativi stranieri con il Dalai Lama, in qualsiasi veste».
Come se non bastasse, è proprio di ieri la notizia che 20 persone della minoranza etnica degli Uiguri sono rimaste uccise in violenti scontri con la polizia cinese a Hotan (nello Xinjiang, regione nord-occidentale della Cina).
Nella complicata matassa delle relazioni internazionali, il ruolo di leader economico della superpotenza cinese impone senza dubbio “un occhio di riguardo”: sarebbe impensabile nonchè pericoloso per la nostra economia recidere ogni legame commerciale e finanziario.
Se esporsi nettamente contro la politica cinese richiede una buona dose di coerenza e coraggio, quantomeno si potrebbe però evitare di tesserne le lodi.
Qualche mese fa, a pochi giorni dall’inizio della missione libica, Angelo Panebianco decantava le prodezze della Realpolitik, dando contestualmente degli “ingenui” a tutti coloro che, «nelle fasi di effervescenza rivoluzionaria, criticano le commistioni e le complicità con i tiranni». Il riferimento ovvio era alle numerose voci che da più parti si erano alzate per denunciare la politica quantomeno incoerente dell’Italia: in passato sempre pronta a stringere l’occhiolino a Gheddafi; ora in prima linea nel conflitto contro di lui.
La tesi di Panebianco è la seguente: «Non possiamo autoflagellarci per avere trafficato per decenni con i dittatori. Lo imponevano gli interessi delle democrazie occidentali: nessun governante democratico può conservare il potere se non tutela l’interesse del proprio Paese così come esso viene definito dai gruppi interni, politici, sociali ed economici, che contano. E l’interesse richiedeva di coltivare quelle relazioni».
Seppur opinabile, questo discorso ha una sua logica.
Nello sforzo di venire a capo di una complicata questione morale – “è giusto combattere un dittatore con il quale si sono tenute in passato strette relazioni diplomatiche?” – forse si dovrebbe fare tesoro della lezione libica, prima di definire il regime cinese «un importante partner politico».