Vi ricordate Dustin Hoffman nel celebre film di Pakula del 1976? O magari avete letto All the President’s Men di Woodward e Bernstein. È la storia – tanto vera quanto clamorosa – di uno degli scoop più celebri del giornalismo contemporaneo. Un quotidiano, il Washington post, scopre un intreccio tra politica, servizi segreti e polizia federale costringendo il presidente Nixon alle dimissioni. Ci sono tutti gli ingredienti per il successo: i buoni e i cattivi, anzitutto. I giornalisti fanno la parte dei buoni e il “sistema” gioca il ruolo del cattivo. C’è poi l’intuizione, lo spirito d’iniziativa, l’abnegazione, gli ostacoli (apparentemente) insormontabili e, a conclusione della vicenda, il lieto fine.
La ricetta ha solamente un difetto: non è attuale. Oggi, a poco meno di 40 anni di distanza, il reportage del Washington post non avrebbe senso. Mi limito a due esempi. Il primo è quello di Julian Assange, l'(anti)eroe del giornalismo. Wikileaks ha rappresentato una svolta nel mondo dell’informazione come fu per l’indagine del Washington Post. La differenza è che, nel caso di Wikileaks, non c’è dibattito ed elaborazione del fatto. Questo viene presentato dal giornalista per com’è, nudo e crudo. Il commento, quando c’è stato, è sopraggiunto dopo e senza che la fonte esprimesse mai la propria opinione.
Il secondo esempio ce lo danno le insurrezioni del Nord Africa. Qui il giornalismo ha dovuto confrontarsi con l’onda mediatica che non ha potuto fare altro che cavalcare la notizia. Anche qui, se proprio vogliamo parlare di commento ed elaborazione della notizia, ci dobbiamo riferire a un approfondimento giornalistico, piuttosto che a uno scoop.
Non credo che il giornalismo del ventunesimo secolo sia privo della capacità di produrre informazioni nuove e sconosciute in precedenza. La mia riflessione riguarda piuttosto il rapporto tra i giornalisti, gli eventi, le nuove tecnologie e la società civile. È un intreccio molto complicato. I giornalisti fruiscono dei vantaggi che portano le tecnologie, ma in parte li subiscono. Oggi con Twitter chiunque può dare in anteprima assoluta una novità, spesso avendo la certezza di un seguito altrettanto consistente di quello di un quotidiano. Questo significa, dunque, che la società civile, i cittadini, diventano protagonisti attivi della notizia e non più soltanto fruitori. Penso a Wikileaks e alle donazioni dei privati che hanno permesso a questo sistema di sopravvivere e poi penso a Le monde diplomatique, che da un anno invita i propri lettori ad autotassarsi per consentire a sé stesso di sopravvivere. Ultimo viene l’evento. La “multiproprietà dei fatti” che meritano di essere raccontati ha imposto il cambiamento dei mezzi attraverso cui raccontarli. I quotidiani tradizionali perdono clienti e ne guadagnano strumenti agili e veloci, come i blog.
Ci sono solamente un problema e un dubbio da risolvere, e nessuno dei due è di poco conto. Comincio dal problema. L’accesso globale all’elaborazione delle notizie ha reso sempre più evidente il distacco tra il giornalismo di approfondimento e quello puramente informativo. Quest’ultimo vive della frenesia dei tempi moderni, viaggia in rete, si alimenta di un linguaggio necessariamente approssimativo e muore rapidamente, perché le novità si succedono a ritmo frenetico e impediscono alle notizie di decantare. Il secondo assume invece sempre più i toni della ricerca scientifica. Approfondisce, scava, commenta, dibatte e generalmente lo fa scrivendo in modo più elegante. Diventa cioè un ibrido tra un articolo di dottrina e un reportage.
Il dubbio è altrettanto intricato. Il giornalismo del Washington Post portò un presidente alle dimissioni e rivoluzionò i rapporti di potere. Quello attuale, sia esso di approfondimento o d’informazione, prodotto da professionisti o da dilettanti, è in grado di cambiare la società in cui viviamo, oppure è condannato al ruolo di sottoprodotto di quest’ultima?