Manuel Winston Reves non ha l’aspetto di un assassino. Al contrario, i lineamenti del suo volto sono dolci e nelle sue vene scorre il sangue di un popolo mite e profondamente devoto.
Winston è un domestico filippino di quarant’anni. Vive in Italia fin da giovane, è sposato e ha tre figli. Dal 29 marzo però sul suo capo pende un’accusa terribile: aver ucciso, nel luglio 1991, la contessa Alberica Filo della Torre, strangolandola con un lenzuolo. All’epoca Winston prestava servizio all’Olgiata, esclusivo quartiere romano dove la nobildonna possedeva una villa. Il caso era stato archiviato per insufficienza di prove, ma dopo vent’anni la polizia è risalita al domestico, grazie alle analisi del Dna sulle tracce di sangue presenti sul lenzuolo.
Francesca Loy, il pubblico ministero a capo dell’inchiesta, incriminerà il filippino chiedendone il giudizio immediato: un rito “accelerato” che si adotta nei casi di evidenza della prova. Oltre ai riscontri biologici infatti, Winston ha confessato: «era un peso che mi portavo dietro da vent’anni» ha detto in lacrime agli inquirenti, durante un interrogatorio.
Ma è giusto che i fantasmi di un delitto perseguitino così a lungo chi l’ha commesso? Un problema simile era stato sollevato nel 2009, quando il regista franco-polacco Roman Polanski fu fermato in Svizzera per aver abusato di una bambina negli Stati Uniti, trentadue anni prima. Numerosi intellettuali si schierarono a sostegno di Polanski: il tempo e la sofferenza patita dal regista non rendevano più necessario punirlo. Altre voci si pronunciarono invece per la sua condanna: la legge non conosce perdono e né l’arte né il genio possono lavare il delitto. Nel caso di Winston nessuno si è ancora interrogato sull’opportunità di una punizione.
Winston era stimato dai suoi ultimi datori di lavoro, una facoltosa famiglia romana che gli affidava i propri figli, ritenendolo un uomo «dolce». Era dedito alle sue mansioni di domestico, giardiniere, autista e nel tempo libero si dedicava alla sua fede cattolica o a lunghe passeggiate solitarie. Con la moglie sosteneva l’educazione dei tre figli nelle Filippine. Non credo di sbagliarmi se affermo che Winston non solo ha l’aria di un uomo perbene, ma è un uomo perbene. Vent’anni fa però quest’uomo, capace d’intendere e volere, decide di uccidere una donna. Winston non è un pazzo, né un maniaco. Perché allora – come dice lui stesso ha confessato – è arrivato a uccidere? I giornali raccontano di un debito, del bisogno di lavorare, di una lite con la contessa. Un deputato in visita al carcere di Regina Coeli ha avuto un breve colloquio con Winston: «mi domando come mai l’ho fatto – si è chiesto il detenuto – ma non trovo una risposta a questa domanda, semplicemente perché non c’è». Forse una doppia personalità di pirandelliana memoria, forse il peccato originale che dai tempi di Adamo e Caino tormenta l’uomo, forse l’innata bestialità della nostra specie. Nessuno può sapere davvero perché – forse neanche chi uccide. Con questo non intendo negare la responsabilità dei singoli: al contrario, se tutto fosse ridotto a malattia e stati mentali patologici, essa verrebbe meno.
Forse non conosciamo le cause del delitto, ma di sicuro dovremmo sapere perché e a che scopo esistono le leggi penali, le forze di polizia, i giudici, le carceri. Il che, nel nostro caso, si traduce nella domanda già posta: «perché, se Winston è colpevole come tutto fa pensare, deve essere punito?». I filosofi del diritto discutono fra loro teorie, spesso contrapposte, sulla “funzione della pena”. I sostenitori della teoria della retribuzione vedono nella sanzione penale un “male” che serve a compensare il reato commesso. Coloro che difendono la funzione preventiva delle sanzioni, invece, spiegano che punire serve a scoraggiare l’autore del reato dal ripetere il suo comportamento; anche gli altri inoltre ci penseranno due volte a delinquere, considerando le conseguenze negative che colpiscono chi infrange la legge. Molti sostengono infine che il carcere dovrebbe avere la funzione di preparare il reinserimento nella società di coloro che hanno sbagliato: ciò sulla base della nostra Costituzione, la quale stabilisce che le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato».
Retribuire, prevenire, rieducare. Nulla di tutto questo sembra realistico nel caso del presunto omicida di Alberica Filo della Torre. Non sembra possibile infatti “rieducare” un uomo consapevole dei propri sbagli, la cui sofferenza l’ha poi probabilmente distrutto per vent’anni. Winston afferma di aver cercato di rimuovere l’accaduto, di essersi dedicato ciecamente al lavoro e alla famiglia, di aver avuto paura di confessare, di aver distrutto la propria esistenza con quel gesto scellerato. Non c’è motivo di non crederci: c’è solo da stupirsi di come sia sopravvissuto a se stesso per tutto questo tempo. Le squallide carceri italiane non lo renderanno una persona migliore. Winston ha già avuto fin troppo tempo e troppa solitudine per riflettere, in quelle sue lunghe e malinconiche passeggiate. Com’è noto, inoltre, il nostro sistema penitenziario cade a pezzi. Ha un tasso di recidiva elevatissimo e non è in grado di offrire nuove opportunità neanche agli spacciatori e ai ladri di automobili. Non si può ritenere che esso rappresenti una speranza per un uomo che supera la fantasia di Dostoevskij e la complessità psicologica dei personaggi di Delitto e castigo.
Quanto alla prevenzione, si potrebbe pensare che il nostro caso sia una vittoria delle istituzioni preposte a combattere il crimine. Scovare un assassino a vent’anni di distanza potrebbe suonare come un monito: «attenti, dalla giustizia non si scappa». Eppure a ben vedere non c’è motivo di esultare. Gli assassini di professione conoscono bene i rischi che corrono. Non sarà la condanna di uno sprovveduto domestico a fermare la mano dei mafiosi e dei terroristi. Tranne qualche raro caso infine, gli assassini “improvvisati” non sarebbero certo toccati da questa storia, per il semplice fatto che nessuno di loro si aspetta, un giorno, di poter uccidere – proprio come successe a Winston. La funzione preventiva della pena può operare appieno solo in quei campi in cui la coscienza non è coinvolta nella sua intima essenza, ma a un livello più superficiale: ad esempio i furti, le rapine, le frodi fiscali.
E la retribuzione? I migliori studiosi di diritto rifiutano questa teoria, tacciandola d’essere barbara. In effetti, l’idea che la pena possa riportare equilibrio nell’ordine delle cose spezzato dal delitto, suona più adatta a un rituale magico che a una moderna concezione del diritto penale. Eppure è proprio questa l’unica risposta accettabile alla domanda, se punire il presunto assassino della contessa serva a qualcosa. «Ogni giorno che trascorrerò qui in cella – dice Winston – servirà a pagare quello che ho commesso, per il dolore che ho inferto a tante persone». La pena dunque non è altro che la necessaria conseguenza dei propri atti: un’affermazione di responsabilità e quindi di libertà. Solo in questa luce, in barba a secoli di filosofie, le norme del diritto penale mantengono un senso. La loro funzione viene messa a nudo, smascherata. Le leggi penali sono un libro magico, i tribunali un consesso di stregoni, gli imputati le vittime sacrificali di una celebrazione necessaria alla nostra sopravvivenza e antica quanto il mondo.
Lavorando di fantasia, possiamo immaginare che il pubblico ministero formulerà l’imputazione a carico di Winston con una punta di amarezza. La legge lo obbliga a procedere, perché sia fatta giustizia; ma la giustizia, priva di maschere, si rivela per quello che è: un rito preistorico che colpisce gli uomini, ricordando loro di essere liberi – liberi anche di commettere il male. L’unica speranza è che i familiari della vittima possano chiudere un capitolo orrendo della propria vita; e che scontando la sua pena, il presunto assassino possa finalmente trovare pace. Se così non fosse, Winston dovrebbe essere immediatamente liberato e prosciolto da ogni accusa.