Dopo l’entusiasmante inizio del 2011, che ha visto il popolo scendere in piazza in Tunisia ed Egitto, ovunque nel mondo arabo le èlites tentano di aggrapparsi al potere e di rispedire al mittente le richieste di democrazia, diritti umani e redistribuzione della ricchezza.
L’incomprensione non potrebbe essere più netta: i manifestanti vedono enormi ricchezze, sia petrolifere sia finanziarie, con cui sovvenzionare scuole, sanità e nuovi posti di lavoro; i Paesi occidentali e i despoti rimasti in sella (a volte alleati, altre in competizione) vedono profitti da spartire, lasciando ai cittadini le briciole.
Per questo, dall’inizio delle rivolte della Primavera araba, un flusso di armi attraversa ininterrotto il Medio Oriente: sono un affare per chi le vende e servono come il pane a chi le compra. In Libia, ad esempio, le forze della coalizione Nato (Usa, Gran Bretagna, Francia, Italia e Qatar) stanno fornendo armi ai ribelli della Cirenaica attraverso il porto di Bengasi (non a caso bersagliato negli ultimi giorni dall’artiglieria di Gheddafi) e il confine egiziano. Sono già presenti sul territorio libico centinaia di istruttori militari – soprattutto statunitensi, inglesi e francesi – per addestrare e inquadrare i ribelli; senza contare le forze speciali, che insegneranno a guidare le bombe sugli obiettivi a terra.
Gheddafi – forte delle forniture d’armi da parte di Cina, Russia, Ucraina, Serbia e Bielorussia – attraverso intermediari africani e russi, sta cercando di tenere duro e spingere i Paesi della coalizione a mollare l’osso. Ogni giocatore di questa partita a scacchi ha i suoi obiettivi: Francia e Inghilterra sono in cerca di lucrosi contratti petroliferi e sperano inoltre di accaparrarsi gli appalti nel periodo della ricostruzione; l’Italia è lì per difendere il legame economico privilegiato con la Libia; gli Usa, per ora più defilati, aspirano a subentrare come partner forte una volta cacciato Gheddafi. I cinesi invece tentano di difendere i contratti petroliferi da 10 miliardi di dollari con il regime; vorrebbero poi, al pari dei russi e dei loro alleati, evitare di perdere uno dei pochi alleati nell’area.
Il problema è che l’assistenza militare della coalizione è appena sufficiente per fermare l’offensiva dei lealisti e gl’istruttori militari potrebbero impiegare dei mesi per addestrare e armare forze regolari anti Gheddafi, sempre che la coalizione non si sfaldi. A meno di non voler replicare il copione vietnamita, che vedeva gli istruttori militari combattere direttamente contro i Vietcong.
Dall’altro lato dello scacchiere, in Siria, i ribelli stanno tentando di organizzarsi acquisendo il controllo di armi anticarro: una mossa in risposta agli assedi con carri armati in città come Deraa e Douma. Secondo alcune fonti a Damasco, pesantemente presidiata da militari in borghese, sarebbero arrivati consiglieri iraniani decisi a replicare le tattiche di repressione già sperimentate contro l’Onda Verde a Tehran nel 2008.
Il regime diffonde poi notizie contraddittorie, come la presenza di radicali islamici sauditi tra i manifestanti, in modo da assicurarsi la fedeltà del 10% di siriani cristiani. Allo stesso modo ai ribelli arriva il sostegno di chi dalla Siria è emigrato all’estero e un documento di Wikileaks ha rivelato finanziamenti Usa per almeno 6 milioni di dollari all’opposizione al Baath. Insomma, la situazione rischia di degenerare in uno scontro in stile libico, nonostante gran parte della popolazione sia contro il regime: Assad ha una forte influenza su esercito e apparati statali, e un crollo del regime come in Tunisia non è all’orizzonte.
Parallelamente, c’è chi non sta a guardare: i Sauditi temono sempre più che Tehran, grazie al suo programma nucleare, diventi una potenza regionale in grado di mettere in pericolo la loro egemonia. Per questo, dopo aver acquisito testate nucleari dal Pakistan, avrebbero appena comprato dai cinesi missili di ultima generazione capaci di trasportare le testate in tutto il Medio Oriente. Il principe Bandar bin Sultan, potentissimo segretario generale del Consiglio di Sicurezza nazionale saudita, ha trattato l’acquisto di vettori cinesi DongFeng 21 e DongFeng 15, che possono essere caricati con testate nucleari e raggiungere i 1800 km di distanza, cioè ben oltre l’Iran e Israele. Una mossa preventiva nei confronti di Tehran, nel caso le sue ambizioni nucleari o imperialiste, ad esempio sul Bahrein sciita, divenissero concrete. La reazione occidentale non si è fatta attendere: il segretario alla Difesa Usa si è precipitato a Riad per tentare di rinsaldare il legame con i sauditi, ora sempre più amici della Cina.
Cercare di capire le dinamiche sotterranee del Medio Oriente è il primo passo per comprendere che le cose sono più complicate di come appaiono. Ai dilemmi morali su come e quando intervenire, si deve accompagnare la consapevolezza che il mondo può essere un posto sporco, mutevole e contraddittorio. Non per questo possiamo esimerci dal farci i conti.