Prendete il commercio, la finanza e la tutela dell’ambiente. Sono tre temi importanti. Ciascuno di essi è oggetto di ripetuti interventi a opera delle autorità pubbliche di tutto il mondo.
Provate ora a immaginare, e poi quantificare, la mole d’interessi che gravita attorno a ciascuno di questi temi. Vi accorgerete che l’elenco è lungo. Ne fanno parte imprese – piccole e grandi – multinazionali, organizzazioni non governative, centri di ricerca e fondazioni. Ci sono anche banche, istituti di credito, sindacati e associazioni religiose. Poi, naturalmente, ne fanno parte gli Stati, incluse le innumerevoli articolazioni di cui questi si compongono (autorità indipendenti, ministeri, agenzie, amministrazioni regionali, enti locali, municipi e comitati di quartiere). Infine, ci sono le organizzazioni internazionali.
Il numero e la varietà dei soggetti pubblici che, a vario titolo, decidono (o in alcuni casi vorrebbero partecipare all’assunzione) delle questioni legate al commercio, alla finanza e all’ambiente è tale che sarebbe impossibile mettere tutti d’accordo. Così, quelli che hanno la facoltà di decidere – ovvero gli Stati – escogitano delle “scorciatoie”: creano le organizzazioni internazionali. I governi decidono volontariamente di delegare il potere decisionale a favore di istituzioni che si trovano al di fuori dei loro confini (e, dunque, fuori dal loro controllo). È vero che così facendo sono costretti a cedere irrimediabilmente porzioni di sovranità, ma si tratta comunque di un’operazione conveniente. Trasferire oltre i confini nazionali la sede in cui vengono prese le decisioni rafforza infatti rapporti tra Stati e facilita le negoziazioni tra questi. Inoltre, una volta che le decisioni sono prese, il fatto che siano state assunte da un’organizzazione internazionale garantisce il bollino d’imparzialità: le scelte rappresentano l’espressione del volere comune di tutti gli Stati e non solo di alcuni tra questi.
Ma le organizzazioni internazionali da sole non bastano a mettere d’accordo tutti gli interessati. Come spiegare altrimenti il movimento no-global di Seattle, le azioni dimostrative di Greenpeace o quelle contro l’energia nucleare? E che dire delle rivolte delle comunità locali che, un po’ ovunque nei Paesi meno sviluppati, si battono affinchè i loro diritti non vengano calpestati quando i loro governi, forti di finanziamenti erogati a livello internazionale, decidono di realizzare nuove infrastrutture o grandi opere?
Ma manca ancora qualcosa per comporre il mosaico. Il diritto al contraddittorio. Se escludiamo poche e sporadiche eccezioni, le organizzazioni internazionali tradizionali rappresentano una mera proiezione dei governi oltre i confini nazionali. Non c’è posto per la società civile, oppure lo spazio è talmente ridotto da impedire, nei fatti, la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali. Per questo si battono le organizzazioni che rappresentano il “terzo settore” e i movimenti spontanei della società civile: per avere voce in capitolo e modellare il contenuto delle decisioni sulla base delle proprie esigenze.
Ad esempio, se l’Unione Europea decide di bandire la commercializzazione dei prodotti geneticamente modificati e gli Stati Uniti si oppongono, la questione viene portata all’attenzione dell’Organizzazione mondiale del commercio, che tenterà di mediare tra i due interessi contrapposti. Ma anche la società civile vorrà dire la sua. Gli agricoltori e gli ambientalisti si batteranno affinchè l’Europa possa mantenere il divieto. Le multinazionali (statunitensti ma anche europee) sosterranno invece per la maggior parte la posizione degli Stati Uniti, poichè questa consentirebbe loro di generare profitti su un nuovo mercato.
E ancora: se il Fondo monetario internazionale decide di erogare un finanziamento a favore del governo indiano per riprogettare il sistema di trasporto pubblico a Mumbai, i cittadini che subiscono l’espropriazione dei terreni e delle case vorranno esprimere il loro dissenso. Se il Kazakistan approva un piano economico che consente lo smaltimento di rifiuti nucleari provenienti da altri Stati sul proprio territorio (e lo fa con il consenso tacito dei governi che hanno sottoscritto la Convenzione di Aarhus sulla tutela dell’ambiente) le organizzazioni ambientaliste e le comunità locali a tenteranno di opporsi al piano, o quantomeno cercheranno di introdurre modifiche che diano loro maggiori garanzie.
A lungo i governi hanno ignorato le pressioni della società civile esercitate fuori dai confini nazionali. Per motivare la loro scelta hanno spiegato che le decisioni delle organizzazioni internazionali devono essere applicate a livello nazionale. In quella sede, sostenevano i governi, i cittadini avrebbero avuto il loro spazio. Ma questa teoria oggi non regge, per almeno quattro motivi.
Primo, perché garantire la partecipazione a monte, durante l’assunzione di una decisione, è cosa molto diversa dal garantirla a valle, quando cioè la decisione è presa e si tratta solamente di attuarla.
Secondo, perché oggi è impossibile per i governi nascondere le informazioni ai propri cittadini. Internet offre uno strumento formidabile di comunicazione, in grado di mobilitare una rivolta, sostenere una campagna di contro-informazione, o più semplicemente diffondere le informazioni.
Terzo, perché la società civile è sempre più cosmopolita. Prendete i dirigenti di tutte le grandi organizzazioni non governative: sono persone che hanno studiato all’estero, parlano più lingue e conoscono bene i problemi di Paesi lontani dal loro luogo di nascita. Le stesse associazioni di settore hanno sedi all’estero e contano su un network di collaboratori e sostenitori distribuito su tutto il globo.
Quarto, perchè ignorare l’opinione della società civile non conviene più. Come giustificare le spese necessarie per sostenere le attività delle organizzazioni internazionali? E come legittimare le decisioni che queste prendono di fronte ai destinatari, se questi non ne hanno avuto notizia? L’accountability (la responsabilità), come dicono gli americani, è un bene che si compra soltanto barattandolo con un po’ di democrazia.
Per questo oggi assistiamo alla nascita degli esperimenti di democrazia globale. Non si tratta di veri e propri sistemi di partecipazione democratica. Anzi, sono sistemi imperfetti, lacunosi e a volte disfunzionali. Ma hanno il pregio di rappresentare un’idea, seppure sperimentale, di democrazia partecipativa oltre i confini degli Stati. Si tratta di esperimenti che le organizzazioni internazionali sono costrette ad attuare, per provare a contenere le pressioni della società civile e contribuire così a formare decisioni più eque.
Come tutti gli esperimenti, l’esito è assolutamente incerto. Nulla esclude che la democrazia partecipativa attecchisca e che le organizzazioni internazionali divengano luoghi di dibattito e confronto tra la società civile e i governi. Ma allo stesso tempo nulla esclude il contrario. Partecipare costa, e non tutti possono permetterselo. Inoltre, ci sono mille modi per spacciare un sistema come democratico, quando democratico non è.
È un bel problema. Sia nel senso che si tratta di una questione affascinante; sia nel senso che il tema è affascinante. Per chi fosse interessato, approfondisco la questione in un libro pubblicato ad aprile 2011 da Rubbettino. Si chiama proprio “Esperimenti di democrazia globale“. Buona lettura, se vorrete.
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