La straordinaria mobilitazione popolare in Egitto, diretta a rovesciare il governo di Mubarak e l’attuale classe politica corrotta, non è la prima in un Paese che non smette di ribellarsi dai tempi dei faraoni. Più di recente, nel 1919, gli egiziani si erano sollevati pacificamente contro i colonizzatori britannici chiedendo l’autogoverno. Successivamente, nel 1952, un colpo di Stato contro il re e la sua corte aveva portato al potere Nasser e una nuova generazione di giovani ufficiali. Disobbedienza civile, partecipazione femminile, petizioni e proteste erano gli ingredienti della sollevazione popolare del ’52, a cui oggi si aggiungono Facebook, Twitter, Al Jazeera e migliaia di ragazzi egiziani. Si tratta di giovani istruiti, con una laurea ma senza un lavoro, con speranze e aspirazioni diverse da quelle dei loro padri, intrappolati in un Paese con scarse libertà civili.
Le rivolte in Egitto ci mostrano uno scenario drammatico, di cui spesso ci dimentichiamo: a pochi chilometri dalle nostre coste, regimi oppressivi tengono sotto scacco milioni di persone, sono un ostacolo alla costruzione d’istituzioni stabili e democrazie effettive, impediscono la realizzazione di tanti giovani e donne, ammutoliscono ogni dissenso e incarcerano gli oppositori.
In questi giorni nessuno ci ha detto che la regola valsa per troppo tempo è che ci sono dittatori buoni e dittatori cattivi, regimi amici e regimi canaglia, autocrati che garantiscono stabilità e altri pericolosi per la democrazia. La verità arriva evidente da Tunisi e dal Cairo: tutti i regimi fanno semplicemente orrore. Queste rivolte chiedono all’Europa e a noi cittadini di democrazie (più o meno) mature di prendere posizione: se gli spari contro i manifestanti in Egitto o a Tehran ci fanno schifo, se i giornalisti uccisi in Russia e le squadre della morte in Darfur sono rivoltanti, dovremmo comportarci di conseguenza. Se iniziassimo a votare badando a chi ha come alleati Gheddafi e Putin, lanceremmo un messaggio agli oppositori libici e ai giornalisti russi: diremmo loro che non sono soli.
La Realpolitik esige equilibrio, si può obiettare. E non è un’osservazione priva di fondamento. Ma affermare che la rivoluzione non vada appoggiata perché scacciare il despota può portare al potere un leader peggiore, significa rinunciare a combattere con le armi della politica. Certo, sarà necessario convincere gli egiziani che una transizione morbida è preferibile al caos e che elezioni rapide non sono necessariamente elezioni democratiche. Come rilevato da Emma Bonino, senza istituzioni forti è difficile immaginare esiti realmente democratici. Non è con isolazionismo e intransigenza che si rende un miglior servizio alle popolazioni schiacciate dai regimi. Ma non bisogna confondere Realpolitik con accondiscendenza o complicità. L’Europa e gli Stati Uniti possono rinsaldare il loro legame collaborando, legando integrazione e finanziamenti alla costruzione d’istituzioni funzionanti e verificando i risultati delle riforme democratiche e dei programmi di sviluppo.
In fondo, i ragazzi che gridano slogan in piazza Tarhir ci chiedono: «siete davvero contenti delle vostre democrazie? Sono davvero democrazie compiute? Siete sicuri di non poter fare nulla in prima persona per cambiare le cose che non vi piacciono?». Noi possiamo dimostrare sul serio, da oggi, che c’importa davvero. Quei ragazzi sono la risposta che le cose si possono cambiare.