«Beppe, tragedia, preparati che qui sono davvero tutti maschi!». Il mio primo giorno di università inizia con l’sms di un amico di vecchia data – iscritto insieme a me al Politecnico di Milano – che anticipa lo spettacolo di cui poco dopo sarei stato testimone. È inutile fare finta di niente: la prima cosa che cattura l’attenzione quando si entra in un campus d’ingegneria non sono i laboratori attrezzati, le aule d’informatica, o le strutture ampie e moderne. Per un ragazzo non ancora 20enne, la visione di un’aula quasi interamente maschile provoca un inevitabile senso di nausea.
I dati purtroppo confermano le impressioni visive. Nell’anno accademico 2008-2009 le matricole d’ingegneria meccanica al Politecnico risultano essere complessivamente 455, di cui donne solo 19 (dati Miur). Roba da far venire i brividi: stiamo parlando del 4% circa! Le cose migliorano se si vanno a spulciare i numeri degli altri corsi d’ingegneria. La parità si raggiunge solo nell’isolato caso di biomedica, dove si verifica addirittura il sorpasso: 74 ragazze su 144 iscritti totali (un inimmaginabile 51%). In totale, raggruppando tutti i corsi d’ingegneria si contano 4.969 matricole, di cui solo il 21% sono ragazze. Inutile dire che, se ci si limita a considerare i corsi d’ingegneria industriale (meccanica, energetica e aerospaziale), questo già poco esaltante risultato si abbassa ulteriormente. E non di poco.
È altrettanto evidente che la scarsa presenza di ragazze in queste facoltà è una delle cause principali della grande sproporzione tra uomini e donne che si ritrova poi nelle industrie vere e proprie.
Qui si pongono quindi alcune questioni fondamentali. Siamo sicuri che dietro questi numeri non si celino delle differenze concrete tra universo maschile e femminile? Queste diverse attitudini possono tradursi in scelte diverse anche nell’ambito della vita professionale? È lecito pensare che gli uomini possano essere più inclini a ricoprire certi ruoli rispetto alle donne, e viceversa?
Per non essere distratti da altre variabili, proviamo a considerare un contesto ideale in in cui sia garantita a tutti la medesima opportunità di scelta e di carriera. Partiamo dal presupposto che la scelta dell’università non sia legata a oneri o vincoli particolari, ma avvenga principalmente in base a stimoli e vocazioni personali (o perlomeno che i vincoli – qualora esistano – siano ripartiti parimenti tra i due sessi). È interessante quindi domandarsi se l’effettiva differenza tra le scelte dei ragazzi e delle ragazze sia dovuta a caratteristiche genetiche. Oppure, al contrario, se sia soltanto una delle tante conseguenze di una società che propone modelli diversi per i due sessi. In altre parole: uomini e donne sono davvero diversi oppure siamo noi che, mettendo un fiocco blu sulla culla dei maschietti e uno rosa su quella delle femminucce, indirizziamo i nuovi nati lungo cammini di crescita divisi che si rifletteranno, inconsciamente, anche nelle scelte future? Se da domani all’improvviso facessimo giocare i bambini con le bambole e le bambine con le automobili, tra 20 anni l’aula del Politecnico pullulerebbe di nuove iscritte?
Credo che rispondendo in modo univoco a questa domanda si cadrebbe necessariamente in semplificazioni. È difficile valutare fino a che punto le differenze siano naturali e fino a che punto, invece, siano dovute all’influenza dei nostri modelli socio-culturali. Quello che possiamo fare, finché non troviamo una risposta migliore, è impegnarci affinché le donne abbiano tutte le possibilità di scelta che troppo spesso sono state riservate “in esclusiva” all’universo maschile.
Giuseppe Lerner