La difesa della lingua nazionale è un tema di grande attualità e, in quanto tale, suscita sentimenti contrastanti. Ci sono due scuole di pensiero in merito. La prima è quella favorevole all’inglesizzazione: secondo i fautori di questa teoria, l’uso della lingua inglese è oggi uno strumento indispensabile per garantire il buon andamento delle transazioni commerciali e dell’attività d’imprese e amministrazioni pubbliche.
Sul versante opposto ci sono i promotori del multilinguismo, ovvero coloro i quali si battono per preservare l’uso della lingua natia; contrariamente – essi sostengono – andrebbero disperse le radici della cultura nazionale. Di qui la proposta di garantire eguale dignità a tutti gli idiomi (nei contesti in cui operano soggetti di nazionalità diversa), e utilizzare la lingua nazionale dove operino soggetti della stessa nazionalità.
Discutere di monolinguismo, plurilinguismo e difesa dell’idioma nazionale non è soltanto una questione astratta. La scelta a favore dell’uno o dell’altro orientamento (ma anche della loro convivenza) presenta dei costi economici non indifferenti. Il caso europeo è un ottimo esempio: il plurilinguismo impone il pagamento di professionisti che si occupino di tradurre i testi. Non a caso una delle professionalità più richieste a Bruxelles e Strasburgo è quella dei giuristi-linguisti: persone in grado di garantire la traduzione corretta delle direttive e dei regolamenti. Ma anche il monolinguismo ha i suoi costi, perché impone il filtraggio (e, nuovamente, la traduzione) di tutti i testi con parole straniere o integralmente scritti in inglese.
Dal punto di vista culturale la preferenza accordata a l’una o l’altra soluzione rischia di produrre conseguenze anche spiacevoli. Una completa apertura a favore della lingua inglese danneggia seriamente l’identità nazionale: è il caso degli olandesi, che parlano un inglese fluente e privo di qualsiasi inflessione, ma sono tra i popoli europei che mostrano la minor affiliazione verso le istituzioni e la cultura nazionale. Sul versante opposto, la difesa ottusa dell’idioma locale può provocare la frustrazione dei governi di fronte all’influenza che le lingue straniere producono sul vocabolario nazionale. È il caso francese: il governo di Parigi è stato recentemente costretto a prendere atto dell’invasione di termini inglesi non solo nel linguaggio comune, ma anche a livello istituzionale.
Una soluzione definitiva probabilmente non esiste. L’inglese è sempre più la lingua franca del commercio, dell’economia, del diritto e della società. Appena un secolo fa era il francese, segno che quello degli anglosassoni è un primato recente e non necessariamente destinato a resistere nel tempo (sebbene paia improbabile che il cinese, come pure alcuni sostengono, diverrà la nuova lingua universale, almeno nel breve periodo). Rifiutare l’integrazione (con il conseguente “imbastardimento”) della lingua corrente è impossibile; si può comunque tentare di porre un freno all’uso indiscriminato di termini esteri, soprattutto quando ce ne sono di altrettanto validi nella lingua italiana. Policies anzichè politiche; deadline anzichè scadenza; goal anzichè obiettivo; meeting anzichè riunione: in questi casi la definizione e diffusione di linee guida (e non guidelines) da parte delle istituzioni pubbliche consentirebbe di porre le basi per un discorso più ampio e ragionato, in grado di definire la governance – chiedo scusa: il governo – della difesa culturale di un Paese.