Qualcosa si sta muovendo, qualcosa si è già mosso e qualcos’altro si dovrà muovere ancora. Rabbia, frustazione, perdita di fiducia, fame, disoccupazione. Ecco le “micce” che hanno fatto esplodere le strade di Tunisi, invase da manifestati provenienti da tutto il Paese. Il cerino è stato acceso da Mohamed Bouazizi il 17 dicembre scorso. Il tunisino di 26 anni si è dato fuoco per protestare contro la mancata autorizzazione a vendere frutta e verdura da parte della polizia locale. Mohamed è divenuto così il simbolo emblematico della lotta al carovita, denominata “la guerra del pane”. Il suo gesto è stato imitato da molti ragazzi tunisini che, disperati, hanno trovato nel darsi fuoco l’unica via di fuga da un Paese logorato dalla corruzione e senza sbocchi occupazionali per i giovani laureati.
Il 17 gennaio, un mese dopo il martirio di Bouazizi, Abu Abdel Monem si dava fuoco davanti al Parlamento della città del Cairo. Ricoverato in ospedale tra la vita e la morte, ha raccontato di non riuscire più a mantenere la famiglia di quattro figli. Almeno altri cinque identici casi si sono verificati in Egitto e nel Nord Africa. Il malcontento si estende a effetto domino.
«Il nostro popolo è sull’orlo della disperazione: abbiamo quindi deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza collettiva. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la causa». Sono parole che riecheggiano nella mente, quelle scritte sui diari del martire antisovietico Jan Palach, divenuto simbolo della Primavera di Praga nel 1969 dopo essersi dato fuoco in nome della libertà in piazza San Venceslao. Il paragone è tragico: dimostra che ieri come oggi, perché la protesta sia efficace e mediaticamente visibile, occorre portarla all’estreme conseguenze. Occorre che il popolo si faccia “torcia umana”.
Subito dopo questi fatti, in Tunisia esplode un turbinio di sanguinose proteste contro Zine El-Abidine Ben Ali (tirannico presidente da 23 anni), la sua famiglia e il suo partito. Gli scontri sono violenti: da una parte il popolo, composto da cittadini, lavoratori, studenti e professori universitari; dall’altra la Guardia nazionale tunisina, che spara alla cieca su folle di manifestanti come fossero formiche da sterminare. Il governo tunisino e i media mistificano le reali cifre dei caduti e i morti aumentano giorno dopo giorno. Tra le vittime civili si contano anche un fotografo francese e un professore universitario d’informatica. Ma i tunisini non si rassegnano, manifestano, lottano, cadono, si rialzano, urlando in coro: «Tunis horra horra, Ben Ali ala barra!» (Tunisia libera, Ben Ali vattene). Le formiche infatti si muovono più velocemente dei proiettili, si uniscono compatte e assaltano i palazzi istituzionali. Salgono fino agli uffici del Raggruppamento costituzionale democratico (Rcd), mettendo in fuga il presidente Ben Ali e sua moglie (Alia Trabelsi) detestata dal popolo per il monopolio di cui gode la sua famiglia su ogni tipo di prodotto. I due riescono ad atterrare soltanto in Arabia Saudita, dopo essere stati respinti dalla Francia.
A sedare la rivolta non è bastato il discorso del presidente. La sera prima della fuga, in onda su tutte le televisione nazionali, aveva promesso la riduzione dei prezzi su pane, zucchero e olio, oltre che l’attuazione di una politica di sospensione ed esonero dei diritti doganali. Non è servita nemmeno la promessa di ripristino delle libertà civili, di sospensione della politica di repressione e di revoca della censura sulla televisione e su Internet. Il popolo tunisino non ha concesso una delega alla cieca, non ha creduto di nuovo alle parole suadenti di un presidente manipolatore, che a sostegno delle sue promesse ha mandato in strada gruppi di mercenari a urlare il suo nome.
La lezione della storia ci insegna che non di rado il popolo riempie le piazze, protesta, urla. Ma spesso la situazione rimane immutata e i feriti nella polvere. La Tunisia è invece un’eccezione: la piazza ha vinto. Il collante tra la dispotica dittatura di Ben Ali e il popolo si è sgretolato: la paura è scomparsa. Mettendo in fuga il suo presidente, la Tunisia ha compiuto il primo passo verso la transizione democratica, attesa da anni e non più rinviabile.
Le immagini della folla che inneggia alla rivoluzione rimandano con la memoria al 1984, anno in cui la Tunisia assistette alla precedente “guerra del pane” (che dopo pochi anni provocò il colpo di Stato ai danni del primo presidente della Tunisia moderna Habib). Bourguiba fu spodestato appunto da Ben Ali, con l’aiuto del Sismi: il servizio segreto italiano per le informazioni militari, con allora direttore Fulvio Martini, lo fece infatti dichiarare inidoneo per senilità. Proprio Martini fu inviato in Tunisia da Bettino Craxi, consigliato a sua volta dall’Onorevole Aldo Moro: questi aveva elaborato un sistema per avvicinare i Paesi del Maghreb a quelli democratici occidentali. I suoi reali interessi erano però quelli di evitare che gli investimenti italiani dovessero sottostare alla tangente che obbligava gli investitori esteri ad avere associazioni con rappresentanti di famiglie legate direttamente a Habib Bourguiba. Non a caso Bettino Craxi, dopo essere stato accusato di “arricchimento personale” attraverso tangenti e condannato a 23 anni e sei mesi di reclusione, si rifugiò in Tunisia ad Hammemet, dove in tempi non sospetti si costruì una villa e visse sotto la protezione della polizia di Ben Ali fino alla sua morte nel 2000.
La sottile differenza tra le due guerre interne alla Tunisia (quella del 1984 e quella odierna) è che quest’ultima, oltre che alimentata dalla fame e da un bisogno naturale di democrazia, è fomentata soprattutto da uno sviluppo universitario non adeguato al fabbisogno lavorativo del Paese. Sono quindi i diplomati e i neolaureati a soffiare sul fuoco durante le rappresaglie, chiedendo a gran voce la possibilità di spendere il loro titolo di studio.
Le statistiche fornite dall’Istituto nazionale di statistica tunisino mostrano infatti che il tasso d’istruzione è cresciuto vistosamente negli ultimi dieci anni. Aumentano inoltre le università, passando da 6 istituti nel 1993 a 13 nel 2008; anche la percentuale del Pil spesa per l’istruzione sale di 0.4% in vent’anni. Questi aumenti non trovano però riscontro in ambito lavorativo: l’offerta scarseggia e i laureati si moltiplicano a vista d’occhio. Il 5% di crescita media annuale dell’economia tunisina nasconde quindi una situazione economica molto difficile per i giovani tunisini. Se il tasso ufficiale complessivo di disoccupazione è al 14 %, quello dei giovani tra i 18 e i 29 anni è circa tre volte tanto.
Le prospettive future della Tunisia rimangono un’incognita finchè le redini del governo non verranno prese da chi realmente voglia far evolvere un Paese ricco di risorse e colmo di speranze. Arma letale per le dittature è sicuramente Internet: questo spazio, tanto odiato dai regimi autoritari e dai servizi segreti, consente di scambiare informazioni, unificare reti di contatti e di organizzare la protesta popolare. La censura è l’unico mezzo per combattere l’arma del nuovo millennio.
Nel frattempo, le dittature dei paesi dell’Africa tremano: guardando con sgomento la rivoluzione tunisina, capiscono che la rivolta può bussare alla loro porta a giorni. Gheddafi, dittatore libico, in un discorso rivolto al popolo tunisino afferma che quel che è successo nel loro Paese in questo mese lo ha spaventato…
Qualcosa si muoverà ancora!