Siamo nel mezzo di un profondo cambiamento negli equilibri internazionali. La nostra generazione è all’apice della grande trasformazione storica che porterà per la prima volta da molti secoli a questa parte sempre più Paesi, che finora hanno vissuto all’ombra di Europa e Stati Uniti, a emergere e confrontarsi alla pari con il mondo “sviluppato”.
Chi si chiede “ok, ma a me cosa interessa?”, tenga a mente che il cambiamento può investire ogni aspetto della nostra quotidianità: quanto paghiamo per mangiare o comprare un cellulare (prezzi di beni primari e secondari), la qualità dei servizi pubblici (come scuola, sanità e trasporti), la possibilità di trovare lavoro, il costo delle bollette, e così via.
L’onda lunga è davanti agli occhi di tutti e, guardando bene, si possono già intravedere i primi segnali: difficile ripresa economica per l’Occidente, concessione di maggior potere ai Paesi asiatici negli organismi internazionali, ricerca di politiche condivise nella gestione delle sfide globali.
Recentemente anche Dominique Strauss-Kahn – direttore generale del Fondo monetario internazionale e tra i più papabili candidati a sfidare Sarkozy nelle prossime presidenziali francesi – ha rilasciato un’intervista al settimanale Newsweek, sostenendo che «i due secoli della Rivoluzione industriale, quando Paesi relativamente piccoli potevano dominare i mercati e le politiche globali perché controllavano alcune tecnologie (per esempio le armi e l’acciaio, ma anche i tessuti, le comunicazioni e l’agricoltura intensiva) sono finiti. Ora il progresso tecnologico è globalmente condiviso e, come accadeva un po’ di secoli fa, probabilmente la forza di una nazione sarà misurata dalla sua popolazione».
La riflessione è molto interessante e ci riguarda tutti da vicino. Personalmente ci sono due aspetti su cui non sono d’accordo.
1) Se per “forza di una nazione” intendiamo il suo potenziale militare condivido le conclusioni di Strauss-Kahn. C’è però da augurarsi, per ovvi motivi, che nei secoli futuri non sia questa la logica dominante. Se quindi consideriamo la “forza di una nazione” come la sua capacità di creare benessere per i cittadini che la abitano e garantire un’alta qualità di vita, allora il discorso cambia radicalmente. Abbiamo davanti ai nostri occhi i risultati prodotti in questi ambiti dai Paesi Scandinavi, nonostante la loro scarsa popolazione (anzi, in parte, forse facilitati proprio da questo). Il successo di ogni nazione dipenderà dunque dalla capacità di condividere i suoi progressi sulla più larga base possibile. E qui vengo al secondo punto.
2) Come spesso accade nelle analisi di crescita basate principalmente su fattori economici, si tende a sopravvalutare la progressione in corso. Le proiezioni tralasciano infatti un fattore essenziale: le istituzioni. Finché i Paesi emergenti non accompagneranno la loro crescita economica a uno sviluppo sociale e istituzionale, l’Occidente manterrà un fortissimo vantaggio comparativo nel medio-lungo periodo.
Di recente ho trascorso diversi mesi nel sud-est asiatico, dove ho potuto osservare con i miei occhi quello che scrivo. Il rapido sviluppo in corso è fragile e dipendente dall’Occidente più di quanto generalmente si creda, perlomeno finché questi Paesi non integreranno nel proprio Dna i fattori che hanno garantito (e tutt’ora garantiscono) una progressiva stabilità socio-politica – e di conseguenza economica – all’Occidente. Parlo di democrazia, istruzione, tutele sociali (come sanità e pensioni), libertà d’informazione. La Cina lo sa bene: ne è dimostrazione il fatto che con sempre maggiore insistenza nelle riunioni del Partito Comunista questi argomenti sono all’ordine del giorno (creando tralaltro non pochi conflitti al suo interno tra chi ha una visione più conservativa o riformatrice).
Al tempo stesso, quando queste riforme verranno attuate dai Paesi emergenti, inevitabilmente i loro tassi di crescita legati agli scambi internazionali rallenteranno a causa dei “costi sociali” immessi e si tornerà a un maggiore equilibrio. Che il sistema tenda, nel lungo termine, in questa direzione è senza dubbio. Quello che invece non è ancora del tutto chiaro è cosa possa succedere nel frattempo. Chi è interessato a sapere quali rischi corriamo, può dare un occhio qui.