Digito “giovani” su Google: ottengo circa 13 milioni di risultati. “Politiche per i giovani” ne produce oltre 1 milione. Così anche “incentivi ai giovani” (oltre 300mila risultati), “politiche giovanili” (quasi 500mila) e “sostegno ai giovani” (mezzo milione di risultati). Non c’è da stupirsi. Il vocabolo “giovane” è insieme aggettivo e sostantivo, entrambi di uso comune. Logico dunque che in politica si insista sui giovani e sulle iniziative a loro dedicate.
Ma in cosa consistono esattamente le politiche giovanili? Quali sono le misure concrete che il governo italiano ha varato per tutelarli? Dare una risposta univoca non è semplice. Per cominciare, è necessario fare una distinzione tra il livello politico e quello pratico. Non sempre le dichiarazioni d’intenti si traducono in strumenti concreti. Quando poi vengono effettivamente presi dei provvedimenti, spesso intervengono fattori esterni che ne rallentano, sospendono o addirittura interrompono l’attuazione.
Uno dei tanti campi dove le misure a sostegno dei più giovani si sono scontrate con degli interessi di parte più forti è quella delle professioni. L’Italia è un Paese in cui per tradizione le corporazioni e gli ordini professionali presiedono alla tutela degli appartenenti alle rispettive categorie, disciplinando (tra le altre cose) le condizioni di accesso.
Un caso su tutti, forse il più eclatante: gli avvocati. Nel 2006 l’allora ministro dello Sviluppo economico Bersani varò un pacchetto di misure finalizzato alla liberalizzazione delle prestazioni professionali. In altre parole, il cosiddetto “decreto Bersani” aprì al libero mercato, permettendo agli studi legali di applicare le tariffe che ritenevano più opportune. Fu una decisione molto discussa quanto ai principi ispiratori e agli esiti. A giudizio di alcuni la liberalizzazione avrebbe sostenuto i giovani professionisti, consentendo loro di entrare sul mercato più agevolmente, applicando tariffe più convenienti e attirando così un numero maggiore di clienti. Secondo altri invece la corsa al ribasso avrebbe causato un impoverimento generale della categoria, danneggiando sia gli avvocati di vecchio corso, sia soprattutto i nuovi avvocati, costretti a praticare tariffe da fame per poter raccogliere clienti.
È difficile dire dove si trovi la verità. Piuttosto è probabile che la liberalizzazione delle tariffe abbia prodotto entrambi gli effetti: una più diffusa facilità d’ingresso sul mercato, soprattutto per “le matricole”; ma anche un incentivo alla competitività, finendo per disincentivare i meno volenterosi (o meno brillanti) a intraprendere una carriera solitaria, almeno per i primissimi anni.
Quali siano stati gli effetti sulla categoria degli avvocati, positivi o negativi, il ciclo vitale del decreto Bersani sembra vicino alla conclusione. Il Ministro della giustizia Alfano ha pronto un nuovo pacchetto di riforme che, tra le altre cose, riufficializzerà le tariffe minime degli studi professionali. In realtà la riforma dovrebbe andare ben oltre. È previsto infatti – perché, è bene precisarlo, così ha chiesto insistentemente l’ordine degli avvocati – un serio giro di vite sulle modalità d’iscrizione all’albo e sulle incombenze a carico degli iscritti, che aumentano in numero e onerosità, soprattutto al fine di ridurre il numero di iscritti per anno e porre un freno al conseguente impoverimento della categoria.
Ostruire la praticabilità di una professione per difendere gli interessi economici degli “interni” – problema peraltro molto diffuso, si pensi al caso dei tassisti – è l’esempio più evidente di come spesso le affermazioni di principio a favore dei giovani vengano poi negate nella pratica.