Meno male che il presidente afghano Karzai si è espresso con ammirazione per il lavoro svolto da Emergency! Se avesse manifestato astio e diffidenza probabilmente i tre operatori italiani non avrebbero più fatto ritorno. La vicenda ha destato nei giorni scorsi non poco clamore: com’è possibile che una Ong come Emergency detenesse delle armi in ospedale con lo scopo di ordire un attentato contro il governatore della provincia di Helmand? Considerando l’encomiabile attività di assistenza medica e umanitaria svolta dall’Associazione di Gino Strada, tali accuse appaiono decisamente irrealistiche.
Meglio concedersi il beneficio del dubbio avrà pensato il ministro Frattini che si è subito preoccupato della possibile vergogna per l’immagine italiana. Anche il presidente del Pdl al Senato, Maurizio Gasparri, non ha perso tempo a tracciare le distanze tra il governo italiano e l’operato di Emergency: «il governo deve tutelare la reputazione dell’Italia (…) chi dovesse vigilare poco crea un gravissimo danno». Giusto, prima viene l’onore del proprio paese poi l’incolumità dei tre medici italiani che hanno atteso otto giorni prima di essere scarcerati. Giorni di tensioni e preoccupazioni che si sono insinuate nel cuore degli italiani insieme all’ipotesi del complotto. Una ritorsione contro Emergency che avrebbe origini lontane. Il sospetto delle autorità afghane ricade su Marco Garatti che nel 2007 avrebbe contribuito alla cattura del giornalista Daniele Mastrogiacomo da parte dei talebani. Le malelingue sostengono che il volontario italiano avrebbe approfittato della sua posizione di mediatore per potersi intascare una parte del riscatto, pari a 500mila dollari.
Pensando alla personalità tratteggiata nella lettera inviata al Corriere dalla nipote Francesca Garatti, pare difficile credere a simili illazioni. Il ritratto che ne emerge è quello di una persona che al desiderio di carriera ha anteposto quello di poter mettere la propria professionalità al servizio di persone svantaggiate. Mettendo spesso a repentaglio la sua vita, racconta Francesca, «ha fatto l’unica cosa che era in grado di fare: salvare vite umane». Forse però non è nemmeno questa la chiave di lettura dell’intera vicenda. Gino Strada ha sempre sostenuto che il motivo del blitz da parte delle forze di sicurezza afghane e di coalizione risiedesse nella natura dell’attività che Emergency svolge: accogliere e curare chiunque abbia bisogno. Nell’ospedale non si fanno discriminazioni tra talebani o poliziotti feriti in combattimento. È per questo motivo che siamo «testimoni scomodi» sostiene il fondatore di Emergency.
Lunedì 12 aprile, due giorni dopo l’arresto, i media afghani affermano l’avvenuta “confessione del complotto” da parte dei tre italiani. Il fatto è stato poi completamente abbandonato dai quotidiani e ciò ha contribuito a rafforzare l’alone di mistero che tutt’ora avvolge l’intera vicenda. Certo, ciò che conta è che Emergency ne sia uscita a testa alta senza responsabilità né colpe, ma soprattutto che i tre italiani siano stati scarcerati e rimpatriati. Una vittoria ottenuta, secondo il presidente Napolitano, grazie “all’accortezza e alla fermezza” del governo italiano. Ma a che prezzo? La chiusura dell’ospedale è stata la contropartita che l’Italia ed Emergency hanno dovuto accettare per poter riavere indietro i tre operatori. Tanto basta a confermare come la perquisizione ordita dalla polizia afghana fosse solo un pretesto per tenere sotto pressione l’organizzazione di Strada. Resta ancora da chiarire come le armi siano finite dentro l’ospedale.