È del 16 ottobre scorso la notizia dei 7 cristiani crocifissi in Sudan. Sulle pagine dei giornali questi fatti catturavano facilmente l’attenzione del lettore che di fronte all’orrore recriminava contro la così grande disattenzione dei media occidentali al massacro africano. La questione è di quelle che destano grande costernazione e altrettanto presto scompaiono dai giornali: così è successo anche in questo caso. Come alcuni vescovi denunciano, in Sudan è caccia al cristiano in un contesto nel quale 450mila persone hanno perso la vita e altri 2 milioni sono sfollati. La guerra con alcune interruzioni va avanti da quasi 25 anni ed è caratterizzata dalle continue barbarie da parte dei Janjaweed, tribù vicine al governo del Nord. Vittime sono le popolazioni anche inermi del Sud del Paese, zona ricca di petrolio.
La storia del conflitto è un po’ complessa, ma si potrebbe riassumere dicendo che il Sudan si è diviso tra un Nord «prevalentemente arabo che ha imposto la legge coranica» e un Sud «prevalentemente cristiano e animista». Tra Nord arabo e Sud africano si è stabilita una fragile tregua dopo anni in cui il genocidio dei cristiani e degli animisti del Sud ha raggiunto la cifra di due milioni e mezzo di morti. Attualmente i Janjaweed di Al Bashir (capo del governo del Nord) sono impegnati a sterminare la popolazione nera, in maggioranza musulmana, del Darfur, dove i morti hanno raggiunto una cifra tra i 200mila e i 400mila. Non è in atto solo uno sterminio religioso ma anche etnico, in quanto gli arabi del Nord stanno sterminando la popolazione nera. Nonostante i palesi interessi economici del governo di Al Bashir, la strage assume caratteri religiosi molto inquietanti: si pensi che per gli apostati dell’Islam è prevista la crocifissione. Chi non si converte all’Islam non riceve viveri (che nel 2001 l’Onu dava al governo del Nord), tutti devono diventare arabi nella lingua e nella cultura, così come islamici quanto alla religione, oppure vengono ridotti in schiavitù, uccisi o esiliati.
Le ragioni economiche che si celano dietro il genocidio vanno al di là dei confini dello Stato africano: la Cina è molto interessata alle materie prime sudanesi. La stessa Cina e la Russia hanno chiesto alla Corte Costituzionale dell’Onu di interrompere il processo contro Al Bashir per crimini di guerra e contro l’umanità, così come due compagnie petrolifere una canadese e una cinese hanno a lungo finanziato il governo di Khartoum. L’opinione pubblica mondiale non può continuare a ignorare il disastro umanitario centroafricano, nè la persecuzione religiosa in atto. Le denunce non si possono fermare a sporadiche notizie, al contrario sarebbe necessario un intervento internazionale più risolutivo rispetto ai timidi tentativi fin’ora svolti (limitati per lo più a operazioni di “peace-keeping”).