L’Italia fatta in casa

Collaborazioni esterne,

PastaLa cen­tra­li­tà del­la fami­glia nel­la socie­tà ita­lia­na è un valo­re che ci avvan­tag­gia rispet­to a Paesi in cui i lega­mi fami­lia­ri sono più atte­nua­ti o pres­so­ché ine­si­sten­ti, come ad esem­pio negli Stati Uniti, oppu­re è una pal­la al pie­de? Il mini­stro del Welfare, Maurizio Sacconi, non ha dub­bi: nel Libro Bianco sul futu­ro del model­lo socia­le ita­lia­no, scri­ve: «Esiste un lega­me inscin­di­bi­le tra il benes­se­re del­la fami­glia e quel­lo del­la socie­tà. Famiglia vuol dire tes­si­tu­ra di lega­mi ver­ti­ca­li, soli­da­rie­tà inter­ge­ne­ra­zio­na­le, rela­zio­ni che dan­no il sen­so del­la con­ti­nui­tà tem­po­ra­le; vuol dire rap­por­ti di pros­si­mi­tà e paren­te­la, che con­sen­to­no la coe­sio­ne comu­ni­ta­ria. La fami­glia tra­smet­te ai figli il patri­mo­nio, ma anche la cul­tu­ra, la fede reli­gio­sa, le tra­di­zio­ni, la lin­gua, e crea quel sen­so pro­fon­do di appar­te­nen­za, di con­sa­pe­vo­lez­za del­le ori­gi­ni così neces­sa­rio all’identità di cia­scu­no. La fami­glia è anche il nucleo pri­ma­rio di qua­lun­que Welfare, in gra­do di tute­la­re i debo­li e di scam­bia­re pro­te­zio­ne e cura, per­ché è un siste­ma di rela­zio­ni, in cui i sog­get­ti non sono solo por­ta­to­ri di biso­gni, ma anche di solu­zio­ni, sti­mo­li e innovazioni».

Così poste sono affer­ma­zio­ni che cia­scu­no di noi può valu­ta­re solo alla luce dei pro­pri valo­ri reli­gio­si, del­le pro­prie con­vin­zio­ni poli­ti­che. Un cat­to­li­co dirà: «È cer­ta­men­te così». Un lai­co osser­ve­rà che in altri Paesi, ad esem­pio quel­li scan­di­na­vi, la fami­glia non è il per­no cen­tra­le del Welfare, e cio­no­no­stan­te la socie­tà pare fun­zio­na­re bene, tal­vol­ta per­si­no meglio del­la nostra. Privi di evi­den­za empi­ri­ca, di fat­ti e di ana­li­si con cui for­mar­si un’opinione, i cit­ta­di­ni si divi­de­ran­no – come acca­de ormai su ogni argo­men­to in Italia – in due fazio­ni oppo­ste, pron­te ad aggre­dir­si, inca­pa­ci di ragio­na­re per­ché pri­ve degli stru­men­ti per farlo.

Il libro di Alberto Alesina e Andrea Ichino “L’Italia fat­ta in casa” è uno stru­men­to per capi­re. Non se la fami­glia sia un valo­re, non è di que­sto che si discu­te. Bensì qua­li sia­no i van­tag­gi, e anche i costi, del­la scel­ta (che è quel­la che fa Maurizio Sacconi) di affi­da­re alle fami­glie, anzi­ché al Welfare pub­bli­co, un ruo­lo tan­to impor­tan­te nel­la tute­la di chi per­de il lavo­ro, di chi è anzia­no, dei biso­gno­si. Per capir­lo il libro di Alesina e Ichino par­te da un fat­to. In Italia il 45% del­le cop­pie spo­sa­te di età infe­rio­re ai 65 anni vive entro un rag­gio di un chi­lo­me­tro dai pro­pri geni­to­ri. La vici­nan­za ren­de pos­si­bi­li aiu­ti reci­pro­ci: assi­sten­za dei figli ai geni­to­ri anzia­ni e dei geni­to­ri ai figli per la cura dei nipo­ti. Ma anche scam­bi mone­ta­ri: una fami­glia ogni die­ci dichia­ra di aver rice­vu­to un aiu­to dai geni­to­ri (solo una su ven­ti in Spagna e una su cen­to in Gran Bretagna) e la fre­quen­za di que­sti aiu­ti cre­sce quan­do qual­cu­no nel­la fami­glia per­de il lavo­ro. Quindi in Italia non solo i tra­sfe­ri­men­ti finan­zia­ri fra paren­ti sono più fre­quen­ti che altro­ve, ma il soc­cor­so dei paren­ti vie­ne invo­ca­to e offer­to pro­prio quan­do qual­cu­no per­de il lavoro.

Osservate che l’aver spo­sta­to l’assistenza (dei bim­bi, degli anzia­ni, dei disoc­cu­pa­ti) a cari­co del­le fami­glie, non ci ha con­sen­ti­to la costru­zio­ne di un Welfare «leg­ge­ro»: il nostro Stato socia­le è tutt’altro che leg­ge­ro, costa oltre un quar­to del red­di­to nazio­na­le, più o meno come nel resto d’Europa. Ma men­tre negli altri Paesi l’assistenza alle fami­glie rap­pre­sen­ta il 20% del­la spe­sa per il Welfare, in Italia è solo il 6%. Il nostro Welfare si limi­ta sostan­zial­men­te a paga­re pen­sio­ni. Perché abbia­mo fat­to que­ste scel­te? Le isti­tu­zio­ni di un Paese non sono casua­li, ben­sì riflet­to­no le pre­fe­ren­ze dei cit­ta­di­ni. Agli ita­lia­ni pia­ce una socie­tà costrui­ta intor­no alla fami­glia e nel tem­po han­no crea­to isti­tu­zio­ni che con­sen­to­no il per­pe­tuar­si del ruo­lo cen­tra­le del­la famiglia.
Nel seco­lo scor­so l’emigrazione era una neces­si­tà: rom­pe­va le fami­glie, sia che si emi­gras­se in America o a Torino, ma non vi era­no alter­na­ti­ve. Diventati più ric­chi, non abbia­mo uti­liz­za­to la mag­gior ric­chez­za per costrui­re reti di pro­te­zio­ne socia­le che si sosti­tuis­se­ro alla fami­glia, ad esem­pio asi­li nido o sus­si­di di disoc­cu­pa­zio­ne per tut­ti. Al con­tra­rio le isti­tu­zio­ni si sono evo­lu­te pro­prio per con­sen­ti­re alla fami­glia di dive­ni­re il mag­gior ero­ga­to­re di ser­vi­zi socia­li. Pensioni e Statuto dei lavo­ra­to­ri sono un esem­pio. Molte fami­glie ita­lia­ne pos­so­no con­ta­re sul red­di­to di alme­no un «maschio adul­to» pro­tet­to. Alesina e Ichino osser­va­no che ciò tra­sfor­ma la fami­glia in un magne­te che la tie­ne uni­ta. La loro ricer­ca sti­ma che se in una fami­glia ita­lia­na il padre per­de non il lavo­ro, ma sem­pli­ce­men­te la cer­tez­za di esse­re occu­pa­to nell’anno suc­ces­si­vo, la pro­ba­bi­li­tà che i figli esca­no di casa aumen­ta del 40%. Lo stes­so potreb­be dir­si a pro­po­si­to del­la «cro­ni­ca assen­za» di asi­li nido. Se ce ne sono pochi non è per­ché «poli­ti­ci cat­ti­vi» non voglia­no costruir­ne, ma per­ché razio­nal­men­te valu­ta­no che desti­na­re miliar­di di euro alla costru­zio­ne di un pon­te sul­lo Stretto di Messina paghi di più, in ter­mi­ni di voti, che desti­nar­li agli asili.

L'Italia fatta in casaLa mede­si­ma osser­va­zio­ne aiu­ta a com­pren­de­re come mai il mini­stro del Welfare si oppon­ga con tan­ta vio­len­za alla costru­zio­ne di un Welfare moder­no, men­tre difen­de a spa­da trat­ta il dirit­to ad anda­re in pen­sio­ne pri­ma dei sessant’anni di età. Pensioni sicu­re e assen­za di asi­li nido ren­do­no la cen­tra­li­tà del­la fami­glia al tem­po stes­so pos­si­bi­le e neces­sa­ria. È que­sto che gli ita­lia­ni voglio­no, ed è que­sto che Sacconi offre loro. Se si riflet­te su que­sto pun­to, for­se si capi­sce per­ché il cen­tro­de­stra vin­ce le ele­zio­ni. Ma acqui­si­to che ci ritro­via­mo le isti­tu­zio­ni che ci sod­di­sfa­no, la doman­da suc­ces­si­va è: qua­li sono i costi di que­sto model­lo e dove ci sta por­tan­do? Vi sono alme­no quat­tro con­se­guen­ze: la scar­sa mobi­li­tà geo­gra­fi­ca che dà luo­go al feno­me­no che Edward Banfield – un poli­to­lo­go dell’ uni­ver­si­tà di Chicago che stu­diò atten­ta­men­te l’ Italia – cin­quant’ anni fa defi­nì «fami­li­smo amo­ra­le»; il pre­ca­ria­to, cioè un mer­ca­to del lavo­ro divi­so fra un grup­po di super-tute­la­ti e un eser­ci­to sen­za alcu­na pro­te­zio­ne; la dif­fi­col­tà del­le nostre impre­se di cre­sce­re e un peso straor­di­na­rio a cari­co del­le don­ne. «Non a caso le cosche mafio­se si defi­ni­sco­no fami­glie». In una socie­tà cen­tra­ta sul­la fami­glia, le per­so­ne ten­do­no a fidar­si dei pro­pri paren­ti e a dif­fi­da­re degli estranei.

In una serie di lavo­ri di ricer­ca mol­to inte­res­san­ti, tre eco­no­mi­sti ita­lia­ni, Paola Sapienza, Luigi Guiso e Luigi Zingales, costrui­sco­no una misu­ra del «capi­ta­le socia­le» in diver­se regio­ni ita­lia­ne (il capi­ta­le socia­le è pro­prio ciò che il fami­li­smo non con­sen­te di accu­mu­la­re) uti­liz­zan­do come indi­ca­to­re il nume­ro dei dona­to­ri di san­gue. Ne emer­ge che nel Mezzogiorno, dove la fami­glia è più cen­tra­le e la mobi­li­tà infe­rio­re, vi sono meno dona­to­ri di san­gue che, ad esem­pio, in Friuli. La scar­sa mobi­li­tà influen­za anche l’accesso al mer­ca­to del lavo­ro. «In una socie­tà fon­da­ta sul­la fami­glia, il pri­mo pas­so è tro­va­re un lavo­ro, anche pre­ca­rio, ma vici­no a casa per poter esse­re aiu­ta­ti dai geni­to­ri. Poi si aspet­ta un posto sta­bi­le, che gene­ral­men­te si tro­va attra­ver­so i con­tat­ti fami­lia­ri e quin­di sem­pre vici­no a casa. A que­sto pun­to nasco­no i figli e i geni­to­ri, per for­tu­na, sono vici­ni, aiu­ta­no ad accu­dir­li. Poi i figli, diven­ta­ti adul­ti, accu­di­ran­no i geni­to­ri anzia­ni. La fami­glia ita­lia­na è il com­ple­men­to per­fet­to del mer­ca­to del lavo­ro dua­le, fon­da­to sull’immobilità geo­gra­fi­ca». Quando la ricer­ca del lavo­ro si limi­ta ad un intor­no del­la pro­pria fami­glia, cono­scen­ze e rac­co­man­da­zio­ni con­ta­no più di mec­ca­ni­smi che con­sen­to­no un’allocazione effi­cien­te tra lavo­ra­to­ri e imprese.

Altri tre eco­no­mi­sti, Samuel Bentolilla, Luigi Pistaferri e Claudio Michelacci mostra­no che la ricer­ca del lavo­ro tra­mi­te le ami­ci­zie dei paren­ti con­sen­te di tro­va­re un posto rela­ti­va­men­te pre­sto, ma con una retri­bu­zio­ne infe­rio­re rispet­to ai lavo­ri tro­va­ti al di fuo­ri del­la cer­chia del­le ami­ci­zie fami­lia­ri. Ma poi­ché il lavo­ro tro­va­to dai paren­ti con­sen­te di vive­re vici­no alla fami­glia, lo sti­pen­dio infe­rio­re è com­pen­sa­to dai mol­ti ser­vi­zi offer­ti gra­tis dai geni­to­ri. Ma che occa­sio­ni ha per­so quel­la ragaz­za che ha rinun­cia­to alle oppor­tu­ni­tà che avreb­be potu­to offri­re il mer­ca­to del lavo­ro di un’altra regio­ne? Lo stes­so si può dire per le azien­de: «Mio figlio è pur­trop­po un pes­si­mo ragio­nie­re, ma se rie­sco a far­lo assu­me­re dall’azienda del mio ami­co (maga­ri pro­met­ten­do­gli un pic­co­lo aiu­to nel­la sua pra­ti­ca in Comune), tro­ve­rà pri­ma un lavo­ro». Ma quan­to costa que­sto scam­bio all’azienda dell’ ami­co, che avreb­be potu­to tro­va­re un otti­mo ragio­nie­re, cer­to, pagan­do­lo abba­stan­za per con­vin­cer­lo a muo­ver­si da una cit­tà lontana?

Francesco Caselli e Nicola Gennaioli mostra­no che in Italia la fre­quen­za con cui la pro­prie­tà del­le impre­se vie­ne tra­sfe­ri­ta dai geni­to­ri ai figli è par­ti­co­lar­men­te ele­va­ta per­ché la giu­sti­zia civi­le ren­de più dif­fi­ci­le far rispet­ta­re i con­trat­ti. Familismo amo­ra­le e giu­sti­zia civi­le inef­fi­cien­te fan­no sì che la pro­prie­tà del­le azien­de riman­ga all’interno del­la famiglia.
Alla luce di quan­to sopra osser­va­to sul­le isti­tu­zio­ni, vie­ne da chie­der­si se l’inefficienza del­la giu­sti­zia civi­le non riflet­ta sem­pli­ce­men­te le pre­fe­ren­ze degli ita­lia­ni. Ma poi non dob­bia­mo lamen­tar­ci se le azien­de non cre­sco­no, rima­nen­do pic­co­le non sono in gra­do di inve­sti­re in ricer­ca e svi­lup­po e pri­ma o poi non ce la fan­no più. Ma il costo mag­gio­re di una socie­tà cen­tra­ta sul­la fami­glia è il peso straor­di­na­rio che incom­be sul­le don­ne. Non può esser­vi cen­tra­li­tà del­la fami­glia se la casa è vuo­ta. E chi la riem­pie in Italia è la donna.

In Italia le don­ne che lavo­ra­no lo fan­no in media per 7,1 ore al gior­no, con­tro le 8,8 dei maschi. Rientrati a casa, gli uomi­ni aggiun­go­no 2 ore di lavo­ro, le don­ne 4,3. Sommata sull’arco di un anno que­sta dif­fe­ren­za signi­fi­ca che le don­ne in un anno lavo­ra­no 27 gior­ni (di 8 ore) più degli uomi­ni. In Spagna, un Paese per mol­ti aspet­ti simi­le, la dif­fe­ren­za è la metà. Siamo sicu­ri che que­sto squi­li­brio sia un bene? È un bene che tan­te don­ne intel­li­gen­ti scel­ga­no il part-time e addi­rit­tu­ra abban­do­ni­no il lavo­ro per poter accu­di­re figli, suo­ce­re, geni­to­ri e nipo­ti­ni, o maga­ri sem­pli­ce­men­te per tene­re la casa puli­ta anzi­ché assu­me­re un col­la­bo­ra­to­re dome­sti­co? L’Italia fat­ta in casa si chiu­de con due vignet­te sug­ge­sti­ve che con­fron­ta­no la sera in una casa ame­ri­ca­na e in una ita­lia­na dove la don­na, nono­stan­te i suoi quat­tro lavo­ri, man­tie­ne sem­pre il sor­ri­so – ma pri­ma di addor­men­tar­si si chie­de se anni pri­ma abbia fat­to bene a rinun­cia­re alla pro­mo­zio­ne che le era sta­ta offer­ta dall’azienda per poter tra­scor­re­re più ore a casa. Quanto sia­no scel­te libe­re e quan­to impo­si­zio­ni di una socie­tà cen­tra­ta sul­la fami­glia e sui maschi adul­ti è dif­fi­ci­le dire. Certo, come ho osser­va­to, la rispo­sta che tut­to dipen­de dal­la scar­si­tà dei ser­vi­zi pub­bli­ci non tie­ne. Le don­ne sono una mag­gio­ran­za. Se con­si­de­ras­se­ro que­sti ser­vi­zi essen­zia­li, nel tem­po avreb­be­ro vota­to per chi si impe­gna­va a for­nir­li. È più pro­ba­bi­le che il ruo­lo del­le don­ne dipen­da da trat­ti cul­tu­ra­li che han­no radi­ci pro­fon­de ed è dif­fi­ci­le cambiare.

Studiando il com­por­ta­men­to negli Stati Uniti d’ America d’immigrati pro­ve­nien­ti da diver­si Paesi, tre gio­va­ni eco­no­mi­ste, Raquel Fernandez, Alessandra Fogli e Claudia Olivetti (anche gli eco­no­mi­sti tal­vol­ta aiu­ta­no a com­pren­de­re la socie­tà!) han­no sco­per­to che, nono­stan­te l’esperienza di una socie­tà tan­to diver­sa, le carat­te­ri­sti­che cul­tu­ra­li del Paese d’origine (in par­ti­co­la­re la par­te­ci­pa­zio­ne del­le don­ne al mer­ca­to del lavo­ro) sono mol­to per­si­sten­ti, non scom­pa­io­no nep­pu­re dopo due o tre gene­ra­zio­ni. È pos­si­bi­le che la mia sia un’interpretazione tut­ta sba­glia­ta. Se le let­tri­ci lo pen­sa­no, le invi­to, dopo aver let­to L’Italia fat­ta in casa, a spie­gar­mi per­ché le don­ne ita­lia­ne accet­ta­no di sop­por­ta­re un peso tan­to spro­por­zio­na­to. Se non si capi­sce que­sto pun­to, discu­te­re del­le «quo­te rosa» non por­ta mol­to lontano.

Francesco Giavazzi

“L’Italia fat­ta in casa” è pub­bli­ca­to da Mondadori. Gli auto­ri: Alberto Alesina, esper­to di poli­ti­ca eco­no­mi­ca, inse­gna all’Università di Harvard a Cambridge; Andrea Ichino inse­gna eco­no­mia all’università di Bologna.

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