L’Aquila, luglio 2009: l’Italia ospita il summit G8 e la stampa internazionale arranca cercando di tener testa alle dichiarazioni, alle conferenze stampa e alle foto ufficiali dei “grandi” del pianeta. In tutta questa frenetica attività, quasi passa inosservata la notizia che Michelle Obama, al termine di una cena privata con la propria madre e le figlie, si è fatta preparare dal personale del ristorante un “doggy bag” con gli avanzi del pasto. Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, lo definisce «un segno di sobrietà, di attenzione, di riciclo, di responsabilità». Un fatto simbolico, certo, ma che si carica di significato se si pensa che l’autrice di questo semplice gesto è la first lady americana, Paese dello spreco per antonomasia, dove «l’abbondanza anche spropositata di cibo è sempre stata uno strumento di affermazione del proprio status sociale».
Probabilmente “la green lady” Michelle apprezzerebbe molto «Waste: uncovering the global food scandal», ultima fatica dell’ecologista Stuart Tristam. Il libro-inchiesta, edito in Italia da Mondadori, è il racconto di un viaggio all’interno del peverso mondo del consumismo occidentale: tonnellate e tonnellate di cibo non avariato buttate via ogni giorno (negli Usa 22.000, in Italia 4.000), un terzo del cibo comprato dalle famiglie inglesi che finisce dritto dritto nella spazzatura, giusto per citare i dati più impressionanti.
“Waste” è diventato un caso letterario in Gran Bretagna per una serie di ragioni. La prima è che l’ecologista in questione è una personalità estremamente autorevole: ricercatore a Cambridge, laureatosi nel 1999 al Trinity Hall e autore, a poco più di trent’anni, di tre pietre miliari per la filosofia “freeganism”. La seconda è che la risposta di “Waste” all’immane spreco di cibo è a dir poco estrema: Tristam vive infatti da più di dieci anni col metodo del “dumster diving“, ovvero nutrendosi principalmente degli scarti raccolti nei supermercati.
Se la dieta di Tristam può apparire discutibile, l’impianto teorico su cui il “dumster diving” si basa non lo è affatto. Nel mondo occidentale infatti il cibo è diventato così economico che ormai «i venditori al dettaglio realizzano un profitto maggiore vendendo un panino in più, di quanto non rischino di perdere buttandolo via se rimane invenduto. Quindi stipare gli scaffali dei negozi all’inverosimile è un non-sense assoluto (…) che forza inoltre il settore primario a sovra-produrre, per timore che i venditori rimangano senza un prodotto».