Da molti anni in Italia si discute sul modo migliore per ridurre la pressione fiscale e migliorare al contempo la qualità della spesa pubblica, evitando sprechi e inefficienze. I possibili approcci al problema sono due. Il primo sottolinea che l’entità del debito pubblico italiano impone un periodo di “carestia finanziaria”, in cui la pressione fiscale sale, la spesa pubblica si attenua e i surplus generati riducono gli interessi futuri (che attualmente oscillano tra il 5 e il 7% del PIL), consentendo una graduale diminuzione delle imposte. È l’approccio tentato dal governo Prodi, che ha in breve sperimentato un drastico calo dei consensi culminato con una prevedibile “implosione” parlamentare.
Il secondo approccio, più volte ribadito da Silvio Berlusconi nel corso della campagna per le politiche 2008, si basa sull’intuizione dell’economista americano Arthur Laffer, il preferito dell’amministrazione Reagan, arrivata in Italia con alcuni decenni di ritardo. La riduzione della pressione fiscale, eliminando distorsioni e inefficienze e aumentando gli incentivi a investire, porterebbe in breve termine non a un calo, bensì a un aumento del gettito fiscale, attraverso l’ampliamento della base imponibile.
Nella storia ci sono stati alcuni tentativi di aumentare il gettito fiscale facendo ricorso alla “Laffer curve” (cioè l’ultimo effetto descritto). I risultati non sono stati convincenti: il taglio delle imposte non solo non risultava in una crescita del gettito, ma spesso non riusciva neppure a tradursi in un ampliamento della base imponibile. Tuttavia non c’è dubbio che un taglio delle imposte possa avere un effetto stimolante sulla performance economica di un Paese. Siamo però certi che il governo stia tagliando dove dovrebbe? Siamo sicuri che le riduzioni d’imposta promosse negli ultimi mesi siano le più efficaci, quelle che consentono davvero di stimolare investimenti e produttività, facendo crescere il gettito fiscale?
Nei primi 100 giorni di governo, Berlusconi si era posto l’obiettivo di abolire l’ICI (imposta comunale sugli immobili), comunemente riconosciuta come la tassa “più odiosa”, perché colpisce la casa, il bene primario. Nello stesso momento, veniva portato alla ribalta il principio, finora più teorico che effettivo, del federalismo fiscale (ovvero la decentralizzazione della riscossione fiscale e della spesa). Il meccanismo economico alla base del federalismo è ineccepibile: se le decisioni di spesa e, al contempo, quelle di prelievo fiscale sono locali, l’autonomia territoriale sceglierà il livello “ottimo” di spesa, ovvero quello che eguaglia il costo della tassazione al beneficio della spesa. In caso contrario (ed è quello che è successo in Italia negli ultimi 60 anni – e che continua a succedere tuttora) è come pagare una cena alla “romana”: le regioni scelgono quanto mangiare, consapevoli che il loro piatto sarà pagato anche dalle altre.
Eppure l’ICI è l’imposta più “federale” che esista. La riscossione avviene a livello comunale e i proventi rimangono sul territorio: la distanza tra il contribuente e il beneficiario è ridotta al minimo. L’esatto contrario di ciò che avviene con le imposte nazionali, quando si ridistribuiscono risorse provenienti dal prelievo nazionale indirizzandole verso spese locali: la responsabilità della gestione è nelle mani delle autonomie, ma il contribuente “distante” ne perde il controllo.
Non solo, l’ICI è anche l’imposta più efficiente poiché in termini economici è quella meno distorsiva. Tornando all’intuizione di Laffer, l’ICI andrebbe tagliata per ultima, non per prima. È un’imposta che si applica al valore catastale di un bene (la casa) che, per definizione, è un investimento rigido, che non risponde al ciclo economico o agli incentivi provvisori. Tagliare l’ICI non può aiutare a costruire nuove case e non spingerà chi ne è privo a comprarne una. Meglio ridurre la pressione fiscale sulle imprese e sul lavoro dipendente se si vuole incentivare la crescita aziendale e professionale.
Ormai è noto che l’ICI è questione archiviata e non ci sarà modo di farla riaffiorare. Tuttavia, sarà utile tenere a mente un principio: il debito italiano impone a chiunque si occupi di finanza pubblica di trattare il suo mestiere come un “centro di costo” politico, una piazza in cui si deve essere pronti a perdere voti, non uno strumento per vincere elezioni. I contribuenti, soprattutto quelli onesti che pagano regolarmente le tasse, dovrebbero forse in futuro essere un po’ più sospettosi di fronte a certe promesse facili.
Ruben Gaetani