Solo Gaber aveva ragione

Orlando Vuono,

No freedomCi sono per­so­ne che cre­do­no che ora in Italia sia tor­na­ta la demo­cra­zia. La pri­ma pagi­na de Il Fatto Quotidiano del 12 novem­bre cele­bra­va la fine di Berlusconi a carat­te­ri cubi­ta­li: “Oggi sia­mo tut­ti più libe­ri”. Molti lea­der han­no par­la­to di libe­ra­zio­ne nazio­na­le, asso­cian­do la fine del Cavaliere a quel­la del Duce.

Ma si può cre­de­re che, in que­sti 17 anni, l’Italia sia sta­ta – nel miglio­re dei casi – un Paese a demo­cra­zia limi­ta­ta, o – nel peg­gio­re – una dit­ta­tu­ra? I segua­ci di Antonio Di Pietro e chi, come uni­ca fon­te d’informazione, fa affi­da­men­to al blog di Marco Travaglio – e soli­ta­men­te le due cose coin­ci­do­no – rispon­de­reb­be­ro di sì. Chi inve­ce ha coscien­za di cosa signi­fi­chi la paro­la “dit­ta­tu­ra”, maga­ri per­ché la sua fami­glia ha vis­su­to sot­to il Fascismo o per­ché rispet­ta le per­so­ne che vivo­no vera­men­te sot­to regi­mi auto­ri­ta­ri, rispon­de­reb­be di no.

Attenzione, per­ché in que­sti anni non solo il Popolo Viola, Beppe Grillo, Sabina Guzzanti, Paolo Flores d’Arcais e gli scrit­to­ri di MicroMega han­no par­la­to di “dit­ta­tu­ra”. Anche alcu­ni tra i più impor­tan­ti gior­na­li­sti ita­lia­ni, come Enzo Biagi e Indro Montanelli, si sono espres­si in quei ter­mi­ni. Per non par­la­re poi dei mas­si­mi poli­to­lo­gi nostra­ni: Giovanni Sartori e Norberto Bobbio.

DictatorshipDiciamo che, quan­to meno, quest’intellettuali non han­no avu­to una spic­ca­ta sen­si­bi­li­tà nell’uso dei ter­mi­ni più appro­pria­ti. Se è vero che i pro­ble­mi sol­le­va­ti ave­va­no un fon­da­men­to – su tut­ti il con­flit­to d’interessi – è anche vero che l’uso di paro­le qua­li “dit­ta­to­re”, “tiran­no”, “auto­ri­ta­ri­smo” o “regi­me” sono ser­vi­te più a scal­da­re gli ani­mi dei cit­ta­di­ni che ad ana­liz­za­re seria­men­te il feno­me­no Berlusconi.

Certo, il Cavaliere si è impe­gna­to inde­fes­sa­men­te ad avva­lo­ra­re la loro tesi: silu­ran­do Santoro, Biagi e Luttazzi dal­la Rai; man­te­nen­do con­tat­ti – pro­va­ti dal­le inter­cet­ta­zio­ni – con un mafio­so come Mangano; strin­gen­do ami­ci­zie – in poli­ti­ca este­ra come a casa nostra – con i lea­der meno imma­co­la­ti. E anco­ra: con la gestio­ne padro­na­le del par­ti­to; con le innu­me­re­vo­li leg­gi ad per­so­nam; con gli attac­chi vio­len­ti e osses­si­vi al pote­re giu­di­zia­rio e ai gior­na­li­sti di qual­sia­si testa­ta che non fos­se la sua. Eccetera ecce­te­ra eccetera.

Ma tut­to que­sto non basta a defi­ni­re l’Italia del perio­do 1994-2011 una dit­ta­tu­ra. Un dit­ta­to­re non ammet­te che esi­sta­no altri par­ti­ti al di fuo­ri del suo. Un dit­ta­to­re non vie­ne nean­che sfio­ra­to dal­le inchie­ste dei magi­stra­ti, su cui di soli­to ha l’ultima paro­la. Un dit­ta­to­re non per­de due vol­te le ele­zio­ni. Un dit­ta­to­re non dipen­de dal­la fedel­tà di Gabriella Carlucci o Roberto Antonione, per­ché di soli­to la sua usci­ta di sce­na è accom­pa­gna­ta dal­la pol­ve­re da spa­ro, non da un voto di sfiducia.

Polli d'allevamento

 

Demonizzarlo è sta­to un erro­re enor­me. Ricollegare tut­ti i pro­ble­mi del Paese alla sua pre­sen­za è sta­to infan­ti­le, per­ché ci ha dere­spon­sa­bi­liz­za­to: ci sia­mo illu­si di non ave­re nes­su­na col­pa di tut­ti i pro­ble­mi da cui è afflit­ta l’Italia. Oltre che infan­ti­le, è sta­to con­tro­pro­du­cen­te: si è mitiz­za­to un uomo che non ha fat­to altro che ven­de­re sogni a prez­zi strac­cia­ti, col sor­ri­so in bocca.

Berlusconi è riu­sci­to a far­ci par­la­re sol­tan­to di sè. Paradossalmente, chi lo dipin­ge­va come un tiran­no gli face­va un favo­re, poi­ché met­te­va in pra­ti­ca una del­le leg­gi fon­da­men­ta­li di quel mon­do pub­bli­ci­ta­rio in cui nes­su­no si destreg­gia meglio dell’ex Primo Ministro: «Bene o male, basta che se ne parli».

Averlo descrit­to in modo appros­si­ma­ti­vo e cari­ca­tu­ra­le lo ha raf­for­za­to. Esserci ridot­ti a pren­der­lo in giro per la sta­tu­ra, la par­ruc­ca e i lif­ting ha rive­la­to la nostra deso­lan­te superficialità.

Alla fine, è sta­to per il nostro ecces­so di ber­lu­sco­ni­smo che un bar­zel­let­tie­re è sta­to in gra­do di domi­na­re la sce­na poli­ti­ca per più di tre lustri. Alla fine, ha avu­to ragio­ne sol­tan­to Giorgio Gaber: «Io non temo Berlusconi in sé: io temo il Berlusconi in me».

 


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