Se da un giorno all’altro vi trovaste in mano il 2% della produzione mondiale di petrolio, cosa fareste? Dev’essere più o meno quello che si sono chiesti Mustafa Abdul Jalil e il National Transition Council non appena entrati a Tripoli, il 25 agosto scorso. Grazie all’intervento della coalizione, a guida franco-statunitense, il Consiglio di transizione ha potuto finalmente accreditarsi come l’unico governo libico con cui trattare.
Ma gli “abboccamenti” erano iniziati da giorni, se non da mesi: dopo l’accelerazione nei bombardamenti della coalizione, molti avevano intuito che Jalil fosse l’uomo da corteggiare per avere accesso al petrolio libico post-Gheddafi. In teoria i contratti siglati del regime del rais restano attivi anche con il nuovo governo; ma l’attuale esecutivo può tirare in ballo la corruzione del clan Gheddafi e introdurre norme per limitare o escludere partner scomodi e rinegoziare i trattati petroliferi. A maggior ragione trattare con l’Ntc è razionale, in quanto gran parte del petrolio libico è ancora sotto la sabbia e chi si guadagna ora le migliori posizioni potrà fare la parte del leone in futuro.
L’Italia ha un ruolo privilegiato, nonostante la pessima gestione delle relazioni con la Libia dopo la rivolta del 15 febbraio. Nello specifico Bengasi sembra la città attorno alla quale ruotano molti dei recenti rapporti con la Libia. Ad esempio, fu proprio a Bengasi che nel 2008 Berlusconi e Gheddafi siglarono il trattato d’amicizia italo-libico, tra esibizioni di cavalleria e carri armati. Il contenuto del documento è molto preciso: vengono garantiti ingenti risarcimenti alla Libia per il periodo coloniale, si stabiliscono accordi commerciali e libero accesso alle imprese italiane e si dà carta bianca al rais nel fermare gli immigrati con tutti i mezzi a sua disposizione. Anche i più disumani. In sostanza il trattato, oltre a legittimare un dittatore sanguinario, rendeva l’Italia il primo partner commerciale libico e garantiva Eni e i suoi investimenti di 9 miliardi di dollari nella raffineria di Mellitah, a Ovest di Tripoli. Almeno fino alle rivolte e alla sospensione dell’accordo, duramente contestato dai Radicali e da Human Rights Watch.
Ora, dopo la caduta di Gheddafi, mentre Obama e Sarkozy si spendevano in dichiarazioni sulla nuova democrazia e sul futuro politico della Libia, il ministro Frattini si affrettava a spiegare che l’Eni potrà continuare a fare affari con la Libia. Ci si domanda se questa sia una dichiarazione compatibile con il ruolo di ministro degli Esteri… Lo stesso Frattini si esprimeva, non più di 7 mesi fa, per non intervenire in Libia; probabilmente per gli stessi motivi legati a doppio filo con interessi economici.
L’Eni potrebbe metterci da 6 a 18 mesi per riavviare la produzione di petrolio libico; nel frattempo però l’Ntc ha siglato un accordo con l’Ente Nazionale Idrocarburi per ricevere benzina che pagherà con le estrazioni petrolifere future. Un ottimo affare per entrambi. L’Ntc sembra davvero essere affamato di benzina se, un paio di giorni dopo l’accordo, ha chiesto al World Food Programme di comprare 300 milioni di litri di diesel per le esigenze immediate.
Ma nell’affaire del petrolio libico c’è spazio per tutti: i francesi di Total già parlano con l’Ntc, gli americani con Conoco, Marathon ed Hess erano già presenti in Libia con Gheddafi & Co; persino gli inglesi di Shell sembrano voler entrare nella partita. In effetti, secondo il motto pecunia non olet, molte di queste compagnie non si erano fatte scrupolo a trattare con Gheddafi quando ancora era al potere; come ora non badano molto a nascondere gli agganci politici generati dalla guerra.
Gli unici a restare a secco sembrano i cinesi, cosa che può spiegare l’offerta di armi per 200 milioni di dollari a Gheddafi per resistere agli attacchi della coalizione. Ha un bel da fare Jo Biden a ribadire che la Cina è un partner strategico degli Usa proprio nel bel mezzo della guerra. Anche il gigante asiatico sa però che non può stare con le mani in mano e si appresta quindi a buttare alle spalle l’amicizia col rais e a incontrare l’Ntc.
Ma una domanda sorge spontanea: qualcuno ha pensato al dopo? Al di là delle dichiarazioni per la democrazia, nessuno sembra aver realisticamente ipotizzato cosa potrebbe accadere. Innanzi tutto, chi fa parte del Consiglio di transizione? L’Ntc sembra essere un’accozzaglia di ex-ministri del regime, oppositori islamisti e membri d’influenti tribù dell’Est. Il primo ministro Jalil, per esempio: è stato ministro della Giustizia di Gheddafi fino alle rivolte e la sua adesione alla rivoluzione pare sia dovuta più alla sua nascita in Cirenaica che a una vera opposizione al regime. Alcuni ministeri, come quello del petrolio, sono in buone mani: Ali Tarhouni è stato esule negli Usa durante il regime e ora dovrà gestire le enormi ricchezze del sottosuolo libico. Ma altre posizioni influenti, come quella del comandante militare dei ribelli, sono altamente a rischio: Abdel Hakim Belaj in passato è stato addirittura legato ad Al Qaeda. Non sembra quindi un caso che i ribelli si siano affrettati a liberare 120 prigionieri islamisti detenuti da Gheddafi…
Possibile che nessuno sappia che programma politico e che idea di società abbiano i ribelli? Dopo i madornali errori commessi dagli Usa in Afghanistan – quando negli anni ’90 il Pentagono supportò i Talebani quasi fino alla presa di Kabul – non sarebbe certo una sorpresa.
Se la questione libica fosse gestita con responsabilità, lo scenario aperto sarebbe notevole: lo scongelamento dei fondi esteri e i proventi del petrolio potrebbero finanziare uno sviluppo diffuso; inoltre una leadership supportata dall’Europa e dagli Usa sosterrebbe progresso politico e democrazia. Con uno sforzo si potrebbe immaginare che Usa e Ue si impegnino a far rispettare le promesse dei leader ribelli e, con l’aiuto dell’Onu, si riescano a organizzare libere elezioni. Sembra però che ci sia più fretta di negoziare accordi petroliferi e i rumors dicono che l’Ntc sia molto disponibile a farsi convincere.