In Italia i tracciati del grande gioco non sono mai stati popolari. A partire da metà ottocento la sfida per il dominio sulle spedute città di Samarcanda, Bukhara, Khiva e sulla valle di Fergana, vedeva contrapposti impero inglese e Russia zarista. Ora pare che la competizione si ripeta, a distanza di oltre un secolo e mezzo, con giocatori diversi. I protagonisti sono governi di nuove potenze con ambizioni neo-imperiali, che sostituiscono lo zar e la regina Vittoria; spregiudicati affaristi e corrotti governanti locali prendono invece il posto di khan sanguinari, spie e avventurieri.
Anche lo scenario è cambiato: per raggiungere quelle zone remote ci sono voli aerei e lunghi sterrati da percorrere in pullman o con taxi collettivi, non più lunghi tragitti nel deserto a dorso di cammello. Tutta l’area centroasiatica – e l’Uzbekistan in particolare – si è progressivamente aperta ad un flusso costante di visitatori, soprattutto francesi, svizzeri e tedeschi. Ma meglio essere chiari: a questa apertura non corrisponde l’ingresso in politica dei diritti civili.
L’economia nazionale cresce a ritmi cinesi, grazie all’ingombrante vicino del Nord (la Russia di Medvedev e Putin) e ai copiosi investimenti dei businessman pechinesi che affollano i caffè di Tashkent. Il progresso economico consente al regime di Islam Karimov di reggersi solido sulle sue gambe: tacitata l’opposizione con il massacro di Andijon del 2005 (oltre mille morti secondo i racconti della popolazione locale,) mantiene il controllo del Paese senza un’imponente presenza di polizia.
La testimonianza dell’ex-ambasciatore inglese Craig Murray nel 2006, con racconti di lavoro minorile forzato nei campi di cotone e oppositori bolliti vivi, ha solo marginalmente scalfito l’immagine di Karimov all’interno dell’Uzbekistan (dove ovviamente il libro è vietato). Nemmeno la recente diffusione delle informazioni sulla corruzione dilagante (superata solo in Iraq, Afghanistan, Myanmar e Somalia) minaccia realmente il regime; né intacca gli affari della figlia del presidente – Gulnara Karimova – che secondo i rapporti della diplomazia Usa «ha interessi praticamente in ogni settore profittevole dell’economia».
Il governo gode infatti della posizione ambigua dei grandi partner internazionali: gli Stati Uniti usano la base di Karshi-Khanabad per rifornire le truppe in Afghanistan; lo stesso fanno i tedeschi, che pagano circa 11 milioni di dollari l’anno per la base di Termiz, nonostante le sanzioni europee contro il regime.
Anche nella lotta al terrorismo Karimov è riuscito ad allargare i confini della definizione Movimento islamico dell’Uzbekistan a una varietà di gruppi d’opposizione, anche laici, senza suscitare grande riprovazione internazionale. In realtà nella valle di Fergana (la parte più radicale del Paese) non sembra esserci un risorgimento islamista, come affermato da molti media anche occidentali: nei mercati di Margilan o Kokand si vede solo qualche donna velata in più che a Samarcanda o Bukhara e anche gli imam delle moschee considerate più estremiste invitano gli stranieri per un tè.
Forse il controllo sulla popolazione locale si basa più su antiche consuetudini legate a clan e satrapi locali, un po’ come durante il grande gioco, quando russi e inglesi si contendevano il favore di khan locali con ardite missioni diplomatiche. Si tratterebbe quindi di un pugno di ferro più informale che ufficiale. Per esempio, ci sono frequenti “rumors” di guide turistiche che in realtà sarebbero agenti dei servizi, specie nelle zone sensibili del Paese (lago d’Aral, confine afghano e valle di Fergana), ma nessuna prova a carico.
Nel dubbio, in seguito alle rivolte arabe, il regime ha recentemente spinto per una progressiva chiusura dei siti d’informazione nazionali (Fergananews e Unznews, ad esempio) e internazionali (Bbc e Cnn in testa), ma buona parte del web è ancora accessibile, Facebook incluso. Purtroppo la scarsissima alfabetizzazione informatica isola gran parte della popolazione dal ricevere ogni tipo di informazione, che si basa piuttosto sul passaparola e sui cellulari, diffusissimi anche nelle campagne.
Resta da capire cosa succederà il primo settembre, data in cui si celebra l’anniversario dei 20 anni d’indipendenza dall’Urss e contemporaneamente due decenni di governo ininterrotto del presidente. Insieme alle parate in una scintillante Tashkent e ai festival di musica popolare nel magnifico Registan di Samarcanda, l’opposizione potrebbe coraggiosamente tentare qualche dimostrazione. Non sembra invece realistico un attacco da parte del Movimento islamico dell’Uzbekistan, ormai ridotto a pochi uomini braccati dai droni americani nel Nord del Pakistan. Per tutelarsi il regime non sta badando a spese: un cordone di forze di sicurezza circonderà Tashkent, l’accesso alla valle di Fergana è possibile solo attraversando due posti di blocco… ma i controlli interni sono minati dalla piaga della corruzione e basta qualche banconota perché si chiuda un occhio di fronte a screening non molto accurati.
Non rassicura nemmeno la presenza di molti mezzi militari nelle basi ad Andijon e sui passi montani che portano a Tashkent, pronti a intervenire prima che le notizie di eventuali rivolte filtrino fuori dal Paese dalla remota valle di Fergana. E potrebbe non essere casuale la chiusura di alcuni posti di confine con il Tajikistan (ad esempio quello di Pandjikent, ufficialmente per una frana); né sembrano un caso le rigide misure di sicurezza al confine Sud con l’Afghanistan, del tutto inaccessibile.
In definitiva, la minaccia maggiore alla stabilità dell’area sembra consistere negli scontri etnici (come quello Uzbeko-Kirghizi) che hanno lasciato mezza Osh (Kirghizistan) in fiamme e circa mille morti sul terreno solo un anno fa. Se le divisioni etniche avranno il sopravvento su linee nazionali deboli, tracciate dai sovietici secondo la massima sempreverde del divide et impera, il rischio è il caos di guerre civili, che avrebbero effetti anche fuori dal remoto cuore dell’Asia.