Ma alla fine è morto davvero? O dobbiamo aspettarci che riappaia magicamente? A distanza di circa un mese dalla morte del capo di Al Qaeda, con maggiore lucidità dall’impatto iniziale, è forse possibile fare un’analisi più esatta dell’accaduto. Di sicuro non basta il “we got him”(trad. “l’abbiamo preso”) di Barack Obama per avere la certezza che il pluriricercato sceicco sia veramente scomparso. La conseguenza è la proliferazione di milioni di teorie, cospirazioniste o meno, tutte con un aspetto comune: evidenziano che i cittadini nutrono sospetti nei confronti del governo, non si fidano delle notizie ufficiali.
Effettivamente le prove fornite fanno acqua da tutte le parti: le immagini che proverebbero la morte di Bin Laden non sono state mostrate perché si teme di scatenare la rabbia degli estremisti e inoltre non si vuole urtare la sensibilità di qualcuno. Parola del portavoce della Casa Bianca Jay Carney: «Preferiamo non esibire questo genere di cose come trofei». La contraddizione è che, poco dopo l’annuncio dell’uccisione, l’agenzia Reuters ha diffuso foto di tre persone rimaste uccise nel raid nel rifugio di Abbottabad: scatti crudi di cadaveri immersi nel sangue. Per non citare, tra tutto ciò che può ferire la nostra sensibilità, le immagini dell’esecuzione di Saddam. Con quale criterio si sceglie il limite di efferatezza da mostrare?
Sarebbero tre le serie di foto in circolazione: il cadavere di Bin Laden, le altre vittime e le immagini del funerale sulla portaerei americana, nel Mar Arabico. Funerale che già di per sé desta sospetti, in quanto è di comune pensiero che, una volta catturato il terrorista “numero uno”, la prima premura non è quella di celebrare il suo funerale al fine di rispettare le usanze musulmane. Un altro aspetto che poco convince è che viveva nella villa bunker, un vero e proprio mostro ecologico, da almeno cinque o sei anni. Possibile passare così inosservati?
Sono in molti a pensare che Osama sia stato ucciso in seguito all’attacco alle Twin Towers e che la sua immagine sia stata tenuta in vita dal governo americano per ispirare quel tipo di paura utile a garantire il sostegno cittadino per le impopolari guerre o per l’incremento delle truppe. È d’obbligo qui citare Orwell: nel suo eccelso 1984, Goldstein è l’emblema del terrorismo, elaborato dal ministero della Verità. È inafferrabile e sembra essere ovunque, ma gli unici posti in cui compare davvero sono i teleschermi della nazione. Ogni giorno si ripete il rituale dei ”Due minuti d’odio” con il quale si esaspera il disprezzo per il nemico rendendolo una minaccia costante e imminente. Questo fa sì che l’opinione pubblica assicuri al governo il suo appoggio per la guerra.
Un’analisi oggettiva ci fa concludere che, deceduto o no, il ruolo di Bin Laden negli ultimi dieci anni si è trasformato, ha perso centralità: Al Qaeda, da organizzazione piramidale, è diventata una rete di gruppi che hanno acquisito la loro indipendenza e che quasi certamente porteranno avanti la Jihad autonomamente. Un terrorismo in franchising, si può dire.
Quando un’icona muore, il mito prende il sopravvento e l’evidenza diventa meno importante. Stiamo quindi attenti a non far diventare Osama il nuovo Elvis e azzardare l’idea di trovarlo in qualche isola alle Seychelles.