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Quest’esempio, che a molti sembrerà assurdo, ricalca esattamente cosa sta avvenendo in diversi settori del mondo dell’informazione. I modelli produttivi e gestionali dei grandi colossi mediatici infatti stanno cambiando secondo logiche che fino a pochi anni fa erano impensabili.
A scatenare il dibattito è stata la recente risposta di Arianna Huffington (direttore dell’omonimo Huffington Post – uno dei blog più visitati sulla rete) agli oltre 3.000 collaboratori volontari che reclamavano un compenso in seguito all’acquisizione del portale da parte di Aol (America on line) per 315 milioni di dollari: «se il vostro nome sul sito non vi basta, potete andarvene».
Per tutta risposta i blogger hanno avviato una “class-action” contro l’Huffington Post chiedendo in risarcimento 105 milioni di dollari. Staremo a vedere cosa deciderà la giurisprudenza statunitense. È significativo però che nello stesso periodo l’Huffington Post abbia lanciato una sfida al New York Times, convinto di poterlo battere sul numero di utenti quotidiani.
La logica industriale che sta dietro questi avvenimenti è chiara. Il portale punta a crescere reinvestendo la maggior parte dell’utile in strategie di comunicazione per avere maggiore visibilità, risparmiando per quanto possibile sulla produzione dei contenuti. Il numero dei visitatori cresce, di pari passo alle entrate pubblicitarie e alla posizione sul mercato. Diventa così sempre più appetibile come datore di lavoro da inserire nel curriculum per potenziali giornalisti, disposti a produrre contenuti gratuitamente. Il giro si ripete, in un circolo continuo.
Arianna Huffington, o altri datori di lavoro, possono permettersi di rispondere così ai propri collaboratori perché sanno che dietro ci sono schiere di giovani talentuosi disposti a prenderne il posto, nella speranza di avviare una carriera prestigiosa. Il problema è che, secondo questi modelli, la carriera potrebbe non arrivare mai. Un po’ come il mulo che tira il carretto nella speranza di afferrare la carota penzolante davanti ai propri occhi, ma che non potrà mai raggiungere.
Chi pensa che i “cattivi” siano i datori di lavoro non coglie il problema nel suo insieme. Nessuno è obbligato a prendere queste scelte, sono le leggi della domanda e dell’offerta. I blogger decidono di collaborare gratuitamente per avere visibilità, il pubblico apprezza contenuti frequenti e gratuiti (spesso a discapito della qualità), gli imprenditori vedono il proprio prodotto crescere.
Se i giornalisti ritenessero davvero inaccettabile questa situazione potrebbero scioperare collettivamente, in modo da mettere in difficoltà gli imprenditori e ottenere maggiori diritti.
La verità non sta tutta da una parte. Il successo di questi modelli è decretato anche dal pubblico e dai collaboratori, che poi paradossalmente sono i primi a riconoscerne gli effetti perversi. Forse la tentazione di vedere il proprio nome su una grande testata è più forte che ottenere un lavoro giustamente retribuito, oppure no?