Ricerca, innovazione, sostenibilità ambientale e crescita economica. Quattro importanti parole che costituiscono il fulcro delle strategie di governo per investire nel futuro. Termini cerchiati in rosso nell’agenda di ogni capo di Stato; attorno ai quali l’opinione pubblica di tutti i Paesi continua a interrogarsi, chiedendosi se, come e quando.
Proviamo allora a prendere in considerazione due di queste parole “spulciando” nel programma del governo italiano. Mettiamolo a confronto con quello degli altri Stati europei per tentare di capire se il nostro Paese può – in questa prospettiva – considerarsi esemplare.
Innovazione
Le direttive della Commissione Europea prescrivono che sia reso possibile a ogni cittadino dell’Unione l’accesso ai servizi a banda larga entro il 2013, alla banda larga veloce e ultraveloce entro il 2020. Neelie Kroes (commissario europeo per l’agenda digitale) nel settembre 2010 affermava che «la velocità della banda larga è ossigeno per le comunicazione digitali, essenziale per la prosperità e il benessere dell’Europa».
Gli ultimi dati forniti da Eurostat sottolineano però il gigantesco ritardo che l’Italia sta accumulando rispetto agli altri grandi Paesi europei in termini di digital divide, mostrando una media inferiore del 10% agli standard europei. La Grecia è l’unico Stato a far peggio di noi in termini di nuclei familiari con accesso alla banda larga. Solo il 39% della popolazione Italiana ha la possibilità di usufruirne, contro il 51% della Spagna, il 57% della Francia, il 65% e il 69% rispettivamente di Germania e Gran Bretagna. Persino il Portogallo ci ha sorpassato nella graduatoria.
Il divario cresce se vengono confrontati i servizi e-government, che consistono nel processo di informatizzazione della pubblica amministrazione. Solo il 15% degli utenti italiani utilizza il servizio e-gov: la metà rispetto a Gran Bretagna, Francia e Germania (circa il 30%). Ci lasciamo alle spalle solo Spagna e Grecia.
Da cosa derivano questi ritardi culturali e perché in Italia Internet non è ancora entrato a fare parte della quotidianità? Maurizio Dècina, professore ordinario di reti e comunicazioni al Politecnico di Milano, in un’intervista al Sole 24 Ore sostiene che «i ritardi siano figli di profondi problemi. Il 50% degli italiani è un analfabeta informatico; anche chi sa utilizzarlo spesso non lo considera uno strumento utile nella gestione delle “cose serie”: quelle che riguardano i soldi, il lavoro e il rapporto con la pubblica amministrazione». Dunque le potenzialità che Internet offre per il miglioramento di molti aspetti del vivere quotidiano non sono state ancora interiorizzate dagli italiani.
Come si sta attivando la politica per colmare questo grave deficit? A giudicare dal comportamento del ministero dello Sviluppo economico, non si direbbe che il tema sia ritenuto di primaria importanza. Un’altra spinosa questione che riguarda Internet e il congestionamento della banda larga sono infatti i fondi destinati dal governo italiano allo sviluppo di questo fondamentale servizio. Nel 2009 il denaro stanziato dall’esecutivo ammontava a 800 milioni di euro; nel 2010 sono stati ridotti a 100 milioni a causa delle difficoltà connesse con la crisi finanziaria. Come se non bastasse il neoministro dello Sviluppo economico Paolo Romani ha acconsentito che altri 30 milioni di euro venissero falcidiati da un emendamento del cosiddetto “decreto milleproroghe”, privilegiando invece gli incentivi per il passaggio al digitale terrestre.
Il messaggio che ne deriva è semplice e nitido: più televisione e meno Internet. Sembra non essere stato compreso che le politiche per l’innovazione in questo ambito sono uno dei principali strumenti di crescita trasversale in diversi settori, dalla competitività economica per le aziende, ai vantaggi culturali e sociali per il singolo cittadino.
Sostenibilità
Il nostro Paese si sta muovendo verso un futuro orientato alla green economy? Quali sono le strategie degli altri Paesi europei?
L’Unione Europea ha adottato una politica in materia di cambiamenti climatici ed energetici che fissa traguardi ambiziosi per il 2020. Gli obiettivi del progetto Europa 20 20 20 sono principalmente tre: ridurre i gas serra del 20%; diminuire i consumi energetici del 20%; soddisfare il 20% del nostro fabbisogno energetico mediante energie rinnovabili.
Italia ed Europa reagiscono positivamente a questa sfida, utilizzando nuove tecnologie per produrre energia rinnovabile: nascono i primi impianti eolici (come quello in Abruzzo, costruito nel 2005), quelli fotovoltaici, geotermici, marini e si incrementano quelli idroelettrici, già esistenti in Italia dagli anni Settanta. Tra il 2005 e il 2010 gli impianti fotovoltaici installati in Italia sono stati 173 mila, per una produzione totale di 3.853.225 kw (dati forniti dal Gse, il gestore dei servizi energetici, che si occupa delle incentivazioni alle energie rinnovabili).
Insomma, un insperato sviluppo del settore fotovoltaico e un’ottima risposta all’Unione Europea da parte delle imprese e dei cittadini italiani. L’Italia ha la fortuna – soprattutto in alcune regioni del Sud, come Sicilia, Sardegna e Puglia – di essere baciata dal sole e accarezzata dal vento. Come irraggiamento solare in Europa è seconda solo alla Spagna. Un Paese ideale per sfruttare le energie rinnovabili e per sviluppare un settore che in pochi anni ha generato occupazione, prodotto energia pulita e risollevato l’Italia in almeno una graduatoria. Siamo infatti tra gli Stati europei con il maggior numero d’impianti di energia rinnovabile, secondi solo alla Germania.
Come non detto. Il ministro Romani ha recentemente varato un decreto che azzera gli incentivi al fotovoltaico ed eolico per gli impianti che non entreranno in funzione entro il 31 Maggio 2011. In precedenza era previsto invece che tali incentivi dovessero regredire progressivamente di circa il 6% ogni quadrimestre fino al 2013. Inoltre se il terreno sul quale si vuole installare un impianto è dichiarato terreno agricolo, potrà essere sfruttato solo per il 10% della sua superficie.
Una netta presa di posizione, anticipata dalla decisione della regione Veneto di non autorizzare l’installazione di nuovi impianti fotovoltaici a terra con potenza superiore ai 200 kw. Scelte queste che soffocheranno un settore chiave come quello delle rinnovabili, con l’obiettivo neanche troppo celato di favorire, per contro, il nucleare. Ironia della sorte, proprio nello stesso momento in cui la vicenda nordafricana e l’ecatombe giapponese hanno da una parte rimarcato le conseguenze insite nella dipendenza dai Paesi produttori di petrolio e dall’altra messo il mondo con gli occhi nudi di fronte al concreto rischio di distruzione che la scelta nucleare può comportare.
Non sarebbe mancato tuttavia il modo per regolare gli incentivi alle rinnovabili, impedendo al contempo che si creassero delle bolle speculative ed evitando gli stop and go del mercato, che creano incertezza e disorientano gli operatori. Sarebbe bastato imitare la Germania dove – grazie ad un sistema di incentivi a modulazione temporale, che si adattano dinamicamente alla “temperatura” del mercato – si limita l’aggravio aggiuntivo sulle bollette delle famiglie a soli 2 euro mensili.
Ricerca, innovazione, sostenibilità e crescita economica: un Paese in controtendenza mondiale.