Ricordo che quando ero piccolo impazzò per qualche tempo un giochino: le micro machines. Si trattava di modellini di automobile in miniatura. La cura del dettaglio era notevole. Ciascuna automobilina riproduceva fedelmente il modello originario, compreso il pilota. Quest’ultimo era rappresentato da un piccolo pupazzo di plastica, ricavato dallo stesso pezzo di materiale di cui era fatto il sedile. Tant’è che spesso il colore era lo stesso. Così, se per qualsiasi ragione si voleva eliminare il pilota, si era costretti a eliminare anche il sedile, e viceversa.
Perché ho rispolverato un mostro sacro degli anni Novanta? Perchè trovo che sia calzante per descrivere lo stato in cui versa la classe dirigente italiana. Il Belpaese soffre della sindrome delle micro machines: non è possibile rimuovere i titolari dalle poltrone (ricoprano essi un incarico politico o amministrativo) se non a costo di sforzi sovrumani. La perversione è tale che, per liberarsi dell’occupante, spesso si deve eliminare anche la poltrona.
Il caso del ministro dei Beni culturali, quello del presidente del Consiglio, ma anche quelli di diversi giornalisti Rai (reintrodotti forzosamente in organico grazie alle sentenze dei giudici) sono tutti esemplificativi. Nel caso delle autorità garanti e di alcuni ministeri si è arrivati al paradosso: in mancanza di un accordo unanime su chi fosse più adatto da collocare sulla poltrona, si è preferito lasciarla vuota. Quando poi qualcuno decide di rompere con la tradizione e di fare piazza pulita (è accaduto recentemente con la giunta capitolina) lo sconcerto è grande. Ci si preoccupa delle conseguenze del ricambio, trascurandone i benefici.
È comunque necessaria qualche distinzione: da un lato appare sacrosanto l’ordine di reimmissione di un lavoratore allontanato ingiustamente dall’azienza; dall’altro la resistenza dei vertici a lasciare la guida – anche quando l’abbandono è richiesto ad alta voce dalle forze politiche, dall’opinione pubblica e dal buonsenso – è grottesca.
L’impressione è che un radicato attaccamento alle cariche prevalga sul senso del dovere. Con conseguenze che fanno male a tutti: al titolare della poltrona, che perde in credibilità e consenso; ai cittadini, cui si offre una versione distorta delle dinamiche di un sistema democratico (il ricambio dei veritici dovrebbe essere un punto di forza); e fa male alle stesse istituzioni, guidate sempre dalle stesse personalità.
La sindrome delle micro machines può avere tante cause. La prima è legata allo spirito di sopravvivenza: in tempo di crisi ci si può legittimamente aspettare una ritrosia maggiore ad abbandonare il proprio posto di lavoro. Una seconda causa è anche conseguenza della sindrome: poichè i piloti incollati alle poltrone sono sempre gli stessi, inevitabilmente si alimenta un clima da corporazione dove vige la logica “se oggi io difendo te, tu domani difenderai me”. Per alcuni c’è anche una terza causa: la mancanza di validi sostituti. Personalmente non sono d’accordo. Prendo tuttavia atto del fatto che molti, soprattutto tra i più giovani e promettenti, preferiscono rinunciare alla “scalata”, oppure scelgono di farla fuori dall’Italia, o ancora si uniformano a logiche di gerarchia imbarazzanti (come avviene nell’università).
Le conseguenze disastrose della sindrome sono note a tutti: le vive ogni giorno il cittadino medio. Le soluzioni, se esistono, hanno il sapore amaro dell’ideale. Amaro perchè gli ideali, quando non sono destinati a restare tali, spesso devono scendere a patti con la realtà, sporcandosi. Sicuramente l’attaccamento alle poltrone si sconfigge con un ricambio forte e deciso dei vertici: un ricambio favorevole ai giovani. Ben vengano i Renzi e i Vendola se, nonostante il loro stucchevole populismo, saranno in grado di guidare con l’acume e la forma mentis di un giovane. Infine, dev’essere un ricambio tanto politico quanto amministrativo. Spostare i piloti della politica senza toccare quelli delle amministrazioni, o viceversa, sarebbe un risultato grandioso, ma a metà.