La torre di Babele

Gianluca Sgueo,

Torre di BabeleLa dife­sa del­la lin­gua nazio­na­le è un tema di gran­de attua­li­tà e, in quan­to tale, susci­ta sen­ti­men­ti con­tra­stan­ti. Ci sono due scuo­le di pen­sie­ro in meri­to. La pri­ma è quel­la favo­re­vo­le all’ingle­siz­za­zio­ne: secon­do i fau­to­ri di que­sta teo­ria, l’uso del­la lin­gua ingle­se è oggi uno stru­men­to indi­spen­sa­bi­le per garan­ti­re il buon anda­men­to del­le tran­sa­zio­ni com­mer­cia­li e dell’attività d’imprese e ammi­ni­stra­zio­ni pubbliche.

Sul ver­san­te oppo­sto ci sono i pro­mo­to­ri del mul­ti­lin­gui­smo, ovve­ro colo­ro i qua­li si bat­to­no per pre­ser­va­re l’uso del­la lin­gua natia; con­tra­ria­men­te – essi sosten­go­no – andreb­be­ro disper­se le radi­ci del­la cul­tu­ra nazio­na­le. Di qui la pro­po­sta di garan­ti­re egua­le digni­tà a tut­ti gli idio­mi (nei con­te­sti in cui ope­ra­no sog­get­ti di nazio­na­li­tà diver­sa), e uti­liz­za­re la lin­gua nazio­na­le dove ope­ri­no sog­get­ti del­la stes­sa nazionalità.

Discutere di mono­lin­gui­smo, plu­ri­lin­gui­smo e dife­sa dell’idioma nazio­na­le non è sol­tan­to una que­stio­ne astrat­ta. La scel­ta a favo­re dell’uno o dell’altro orien­ta­men­to (ma anche del­la loro con­vi­ven­za) pre­sen­ta dei costi eco­no­mi­ci non indif­fe­ren­ti. Il caso euro­peo è un otti­mo esem­pio: il plu­ri­lin­gui­smo impo­ne il paga­men­to di pro­fes­sio­ni­sti che si occu­pi­no di tra­dur­re i testi. Non a caso una del­le pro­fes­sio­na­li­tà più richie­ste a Bruxelles e Strasburgo è quel­la dei giu­ri­sti-lin­gui­sti: per­so­ne in gra­do di garan­ti­re la tra­du­zio­ne cor­ret­ta del­le diret­ti­ve e dei rego­la­men­ti. Ma anche il mono­lin­gui­smo ha i suoi costi, per­ché impo­ne il fil­trag­gio (e, nuo­va­men­te, la tra­du­zio­ne) di tut­ti i testi con paro­le stra­nie­re o inte­gral­men­te scrit­ti in inglese.

BoccaDal pun­to di vista cul­tu­ra­le la pre­fe­ren­za accor­da­ta a l’una o l’altra solu­zio­ne rischia di pro­dur­re con­se­guen­ze anche spia­ce­vo­li. Una com­ple­ta aper­tu­ra a favo­re del­la lin­gua ingle­se dan­neg­gia seria­men­te l’identità nazio­na­le: è il caso degli olan­de­si, che par­la­no un ingle­se fluen­te e pri­vo di qual­sia­si infles­sio­ne, ma sono tra i popo­li euro­pei che mostra­no la minor affi­lia­zio­ne ver­so le isti­tu­zio­ni e la cul­tu­ra nazio­na­le. Sul ver­san­te oppo­sto, la dife­sa ottu­sa dell’idioma loca­le può pro­vo­ca­re la fru­stra­zio­ne dei gover­ni di fron­te all’influenza che le lin­gue stra­nie­re pro­du­co­no sul voca­bo­la­rio nazio­na­le. È il caso fran­ce­se: il gover­no di Parigi è sta­to recen­te­men­te costret­to a pren­de­re atto dell’invasione di ter­mi­ni ingle­si non solo nel lin­guag­gio comu­ne, ma anche a livel­lo istituzionale.

Una solu­zio­ne defi­ni­ti­va pro­ba­bil­men­te non esi­ste. L’inglese è sem­pre più la lin­gua fran­ca del com­mer­cio, dell’economia, del dirit­to e del­la socie­tà. Appena un seco­lo fa era il fran­ce­se, segno che quel­lo degli anglo­sas­so­ni è un pri­ma­to recen­te e non neces­sa­ria­men­te desti­na­to a resi­ste­re nel tem­po (seb­be­ne paia impro­ba­bi­le che il cine­se, come pure alcu­ni sosten­go­no, diver­rà la nuo­va lin­gua uni­ver­sa­le, alme­no nel bre­ve perio­do). Rifiutare l’integrazione (con il con­se­guen­te “imba­star­di­men­to”) del­la lin­gua cor­ren­te è impos­si­bi­le; si può comun­que ten­ta­re di por­re un fre­no all’uso indi­scri­mi­na­to di ter­mi­ni este­ri, soprat­tut­to quan­do ce ne sono di altret­tan­to vali­di nel­la lin­gua ita­lia­na. Poli­cies anzi­chè poli­ti­che; dead­li­ne anzi­chè sca­den­za; goal anzi­chè obiet­ti­vo; mee­ting anzi­chè riu­nio­ne: in que­sti casi la defi­ni­zio­ne e dif­fu­sio­ne di linee gui­da (e non gui­de­li­nes) da par­te del­le isti­tu­zio­ni pub­bli­che con­sen­ti­reb­be di por­re le basi per un discor­so più ampio e ragio­na­to, in gra­do di defi­ni­re la gover­nan­ce – chie­do scu­sa: il gover­no – del­la dife­sa cul­tu­ra­le di un Paese.

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