La Francia ha scelto: la Grande Cause nationale per il 2011 sarà la lotta alla solitudine. Il governo francese si impegnerà attivamente, patrocinando una serie di iniziative mirate a rendere più felici i propri abitanti. I dati rivelano infatti che il 78% dei francesi ha la netta impressione veder aumentata la propria sensazione di solitudine. Il 30% invece non ne ha solo l’impressione, ma la vive effettivamente. E ne soffre.
L’iniziativa è encomiabile e meritevole di plauso. Ma, letta tra le righe, rimane una perplessità di fondo: è possibile una “felicità di Stato”, cioè una felicità che i poteri pubblici sono tenuti a erogare ai propri cittadini, come fosse un qualunque servizio? Una felicità che, in altre parole, non è la conseguenza indiretta del buon funzionamento della macchina statale; bensì un dovere preciso per cui le istituzioni si mettono in moto.
Apparentemente sì. Appena pochi mesi fa, nel novembre 2010, il primo ministro inglese David Cameron ha annunciato di voler rivedere i fattori su cui è basato il calcolo della prosperità nazionale, introducendo un “happyness index“. Questo non misurerà solo la capacità di spesa o l’aumento dei salari, ma abbraccerà la soddisfazione complessiva. Nell’opinione di Cameron è dovere di un buon governo conoscere quale sia la felicità dei propri cittadini e fare il possibile per aumentarla.
Ci aveva provato – in modo forse un poco più grossolano, ma la sostanza resta la stessa – anche Silvio Berlusconi, appena un anno fa. L’idea del Partito dell’amore era nata come strategia di riavvicinamento all’opposizione e alla base elettorale.
I moventi che spingono i leader politici ad affermare la “felicità di Stato” sono tanti e diversi tra loro: alcuni legati a opportunismo, altri a programmi di governance lungimiranti, altri ancora dipendono dal timore di perdere il polso dell’economia… Ma la domanda di fondo resta la stessa: è compito di uno Stato democratico impegnarsi attivamente affinchè i propri cittadini siano felici?
Se ammettiamo che uno Stato possa farsi promotore della felicità dei propri cittadini, dobbiamo accettare una serie di postulati importanti. Un esempio su tutti: la legalizzazione delle droghe leggere non potrebbe mai essere ammessa, dato che le sostanze dopanti sono dannose per il fisico. Paradossalmente la cura della felicità potrebbe quindi giustificare politiche repressive e liberticide. Volendo estremizzare il ragionamento, sarebbe nel giusto lo Stato che vietasse la diffusione di dati troppo negativi sull’andamento dell’economia, poichè tra gli effetti ci sarebbe quello di scoraggiare gli investitori e i commercianti.
Se, al contrario, neghiamo in principio il diritto di intervento statale sulla felicità dei cittadini, dobbiamo essere pronti a delegare a soggetti esterni – quindi non controllabili – la responsabilità della “soddisfazione pro capite”. Il partito negazionista ammetterà come inevitabili la perdita di prospettive e la sfiducia generalizzata dell’Occidente, in quanto conseguenze inesorabili del mercato (lo sottolinea The Economist nell’editoriale “The redistribution of hope“). Inoltre, proseguendo nell’iperbole, uno Stato che non si preoccupasse della felicità dei cittadini potrebbe senz’altro adottare soluzioni drastiche, purchè nel bilancio dei pro e dei contro i primi risultassero prevalenti.
Dov’è il bandolo della matassa? Escludiamo a priori il finale più scontato: quello della soluzione salomonica “in medio stat virtus“. Conviene forse uno Stato che della felicità dei cittadini si preoccupi solo secondariamente, quale derivato di un buon governo. Peraltro, a voler sentire Eraclito, la felicità è «uno stato d’animo momentaneo che s’impara ad apprezzare quando è già passato». Sarebbe dura la vita di quel governo costretto a rincorrere lo stato d’animo dei cittadini, senza mai riuscire a raggiungerlo…