Mega concerti. Raccolte di milioni di dollari. Star hollywoodiane e politici europei. Ultimamente aiutare l’Africa è diventato più popolare dell’Africa stessa. Pochi però di quelli che prestano la faccia alle campagne d’informazione per aiutare il continente nero lo conoscono davvero.
Qualcuno si è mai chiesto come mai anni e anni di aiuti allo sviluppo abbiano prodotto tale scenario di povertà e caos? Quello che facciamo per cambiare la situazione in Africa ha ancora senso?
Nel suo recente e discusso libro, “La carità che uccide”, l’economista dello Zambia – Dambisa Moyo – sostiene che gli aiuti internazionali abbiano precipitato l’Africa in una spirale di corruzione, guerre e ulteriori aiuti che rischia di mettere un’ipoteca sullo sviluppo futuro del continente. «Gli aiuti creano dipendenza e impediscono di liberare le energie economiche, distorcendo i comportamenti dei governi e dei privati» sostiene la Moyo. Una tesi provocatoria, che sta facendo discutere e che non andrebbe liquidata a priori.
L’intervento esterno è necessario, soprattutto perché dà speranza a una popolazione disperata. Bisogna però ammettere che solo una parte del denaro è destinata a tali progetti: in altri casi si sottovaluta l’impatto che gli aiuti esteri hanno sull’economia e sulla società locale.
In Paesi come l’Uganda, dove il sangue della dittatura di Amin Dada si è solo da poco rappreso, gli aiuti rappresentano il 13.3% del Pil: una valanga di denaro, sufficiente a risollevare l’economia in poco tempo. Ma se ad esempio una Ong distribuisce gratuitamente reti anti-malaria, di fatto distrugge il mercato dei produttori locali e crea disoccupazione, con l’effetto perverso che quando le reti si romperanno, le zanzare saranno sempre lì e nessun africano investirà più i suoi soldi per produrre nuove reti, rendendo così indispensabile l’invio di nuove merci dall’occidente.
Un altro esempio: fino a qualche anno fa la distribuzione di alimenti provenienti dai Paesi ricchi creava una concorrenza sleale per molti agricoltori dell’Uganda. È vero che gli aiuti arrivavano a persone che non avrebbero potuto acquistare nulla, ma contemporaneamente tale denaro (nominalmente destinato all’Africa) tornava in occidente, lasciando i produttori locali a mani vuote e alimentando nuovi aiuti per l’anno successivo. Per non parlare poi delle condizioni paradossali di cui beneficiano i ricchi agricoltori europei o americani, che godono di enormi sussidi e di dazi doganali che li proteggono dalle importazioni dal continente nero. In pratica: spendiamo per salvare gli agricoltori africani dall’indigenza a cui li costringono i soldi dati agli agricoltori nostrani per restare sul mercato. Con la conseguenza che spendiamo due volte e non abbiamo uno straccio di mercato locale in Africa. Molti capi di governo da un lato raccolgono voti facendo campagne per aiutare l’Africa, dall’altro blandiscono gli agricoltori con la promessa di sostenere i sussidi. Un gioco sporco, che deve finire.
Il denaro dei Paesi ricchi può cambiare la situazione, ma è il modo in cui viene speso che fa la differenza. Troppe persone si illudono che gli aiuti internazionali siano sinonimo di sviluppo, o viceversa, che senza questi l’Africa sarebbe perduta. La realtà è molto più complessa. Chi si occupa di sviluppo sul campo tocca quotidianamente con mano le contraddizioni di modelli di sviluppo importati o decisi altrove. Spesso la migliore risposta è dare direttamente agli africani gli strumenti e le informazioni per decidere sul loro futuro.