Sono arrivata in Israele dieci mesi fa: ho diciannove anni, sono ebrea, cresciuta in un contesto laico e ho frequentato la scuola pubblica. Durante gli ultimi cinque anni ho partecipato attivamente al movimento giovanile di ideologia socialista-sionista Hashomer Hatzair: è lì che ho imparato a costruirmi un’opinione critica, a essere meticolosa nelle mie ricerche e a interrogarmi su me stessa e sulla realtà che mi circonda.
Mi considero sionista, ovvero supporto l’esistenza di uno Stato per il popolo ebraico inteso come nazione. Questo non significa però che debba necessariamente concordare con la politica assunta da Israele. Mi sono ritrovata spesso ad affrontare dei grandi dilemmi interiori, in quanto il mio senso di appartenenza a questo Paese entra facilmente in contrasto con la mia volontà di combattere affinchè a ogni popolo vengano riconosciuti i propri diritti. Credo infatti nello Stato di Israele al fianco di uno Stato sovrano palestinese, in cui entrambi i popoli abbiano la possibilità di esercitare il loro diritto universale all’autodeterminazione.
Arrivando in Israele ho toccato con mano la natura democratica di questo Paese, fondato su leggi solide e quotidianamente critico sulla propria condotta. Per esperienza diretta so che i migliori soldati della Forza di Difesa israeliana non vengono selezionati per il grado di violenza e aggressività, ma per la loro moralità, lealtà e disciplina. Non c’è alcun intento di far soffrire e affamare un altro popolo e il dibattito politico non avrà pace finchè non verrà trovata la migliore soluzione possibile. La gente è stanca di mandare i propri figli in guerra ed è sempre viva la speranza che per la prossima generazione non si ripresenti la medesima necessità: la grande maggioranza degli israeliani vuole la pace.
Mi sono resa conto inoltre che non esistono situazioni completamente bianche o nere. Israele è in una condizione di guerra permanente sin dalla sua nascita e né la comunità internazionale, né tantomeno le Nazioni Unite, sono risorse affidabili si cui far riferimento per la risoluzione del conflitto. La Forza di Difesa israeliana è un’istituzione indispensabile, senza la quale questo Stato non avrebbe alcuna garanzia di esistenza. Mio malgrado, mi sono resa conto che in periodi di guerra la Realpolitik è cio che conta.
Tuttavia negli ultimi decenni (basti pensare agli episodi del maggio scorso) Israele ha dimostrato di peccare di hybris. Ha dimenticato che la sicurezza nazionale, pur essendo di suprema importanza, non dovrebbe mai essere la sola strategia che guida le sue decisioni; che dissidenti politici esogeni non possono essere trattati come terroristi; che non è né la legislatrice, né tantomeno la pedina principale della politica mondiale. Ha dimenticato che determinate azioni esigono spiegazioni: gli Stati che sostengono il suo diritto all’esistenza necessitano, e soprattutto meritano, delle buone motivazioni per farlo. Ancora, Israele ha dimenticato che il “contratto sociale” sottoscritto dai suoi cittadini deve essere rispettato con azioni che ne rappresentino i contraenti e non può essere disatteso da politiche autarchiche: insieme alla sicurezza, i suoi cittadini pretendono anche legittimità.
A ogni atto di hybris segue comunque una nemesi, un “contrappasso”: azioni illegittime non passano inosservate, ma al contrario sollevano un forte clamore. Questo è il prezzo che Israele deve ora pagare per un governo le cui azioni sono lontane dai valori sui quali questo Paese è nato: una tragica perdita di vite umane, un crollo catastrofico in termini d’immagine e una ferma condanna da parte della comunità internazionale.
Dal punto di vista dell’opinione pubblica internazionale, che spesso non ha esperienza diretta di queste situazioni, assumere una posizione critica è pressochè impossibile. I media troppo spesso seguono una linea ipocrita: un insulto al giornalismo e alla ricerca dell’oggettività, un diritto negato a tutti coloro che vogliono sapere. Sono stanca di vedere la propaganda mescolarsi con i fatti e la verità distorta da calibrate lenti di pregiudizio politico. Le persone devono essere coscienti dei fatti prima di emettere giudizi o prendere una posizione: un’ azione politica non è una missione umanitaria e a ogni entità dovrebbe essere data la denominazione che merita; il popolo palestinese non è vittima esclusivamente dell’occupazione israeliana, ma ugualmente del suo stesso governo, come pure degli stati arabi e della comunità internazionale. La strumentalizzazione di questo popolo da parte degli stessi Paesi arabi è deplorevole.
Sarebbe giunto il momento che le Nazioni Unite e i suddetti Paesi trovassero la volontà di domandarsi come mai uno Stato palestinese non sia mai stato fondato. Senza dubbio anche Israele dovrebbe chiedersi dove questa politica stia trascinando il suo stesso popolo. Perché non si è trovata ancora risposta a questi interrogativi? Forse c’è poco da soprendersi, dato che non vi è “Niente di nuovo sul fronte occidentale”… e nemmeno in Medio Oriente.
Bianca Ambrosio