Chiare, fresche e dolci acque, ma… bollette salate! È ciò che teme il Codacons (associazione per la difesa dei diritti dei consumatori), pronosticando l’aumento del 30% delle tariffe se i privati intervenissero nella gestione della rete idrica. Attualmente i prezzi italiani sono tra i più bassi in Europa: 1,1 euro al m³ contro i 6,3 della Germania e i 3,1 della Francia (fonte World Water Forum 2009). Tuttavia questi dati, confrontati con i costi del sistema idrico, non consolano più: secondo il Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche, perdite fisiche e allacciamenti abusivi – che rappresentano il 30% dell’acqua immessa – costano ogni anno ben 226 milioni di euro. Soldi sottratti al sistema, ovvero alle nostre tasche. Per garantire l’efficienza occorre denaro, ma in Italia riusciamo a investire appena 107 euro al m³ contro una media europea di 274 euro. Questo accade perché i ricavi non coprono le spese sostenute per garantire il servizio e il ritorno economico per il capitale investito non supera il 7%.
Non sembrano aver centrato il nocciolo della questione né la politica – con il decreto Ronchi – né le folle che si sono mobilitate contro le misure intraprese. “L’acqua non è una merce”, “L’acqua: bene di tutti” sono gli slogan che hanno reso retorici i toni della manifestazione del 22 marzo scorso a Roma. Accusato di privatizzare il bene pubblico per eccellenza, in realtà il provvedimento dà la possibilità ai comuni di affidare la gestione della rete a soggetti privati, come già avviene per il gas e l’energia elettrica. Tuttavia, a differenza di quanto previsto per questi servizi altrettanto indispensabili, la nuova normativa presenta una grave lacuna: non istituisce un’Autorità garante a livello nazionale. Tale ente avrebbe il compito di stabilire regole trasparenti e uniformi per la scelta dei fornitori, elaborare tariffe sociali e prevedere obiettivi di efficienza. Tutto questo con lo scopo di elimininare il rischio di mercificazione di un bene indisponibile, il cui utilizzo va assicurato a tutti i cittadini. Il problema dunque è che si farà ancora affidamento agli Ato (Ambiti territoriali ottimali – organismi che operano a livello provinciale e che non ricoprono l’estensione naturale dei bacini d’acqua), inoltre i gestori avranno buone speranze di influenzare il loro regolatore poiché non ci saranno bandi uniformi a livello nazionale e le tariffe risulteranno diverse per i cittadini da una zona all’altra del Paese. Neppure le campagne referendarie hanno tenuto conto di questo dato importante. Ancora una volta lo scontro ideologico tra chi crede alle promesse di efficienza del privato e chi preferisce le garanzie del pubblico prevale sulla ricerca di soluzioni in grado di risolvere davvero i problemi.
Rossella Ciarfaglia