Giocare alla guerra

Erica Petrillo,

Simulatore militareDue uffi­cia­li dell’esercito ame­ri­ca­no – per como­di­tà li chia­me­re­mo Matthew e Bob – osser­va­no sod­di­sfat­ti il depu­ra­to­re nuo­vo fiam­man­te di Al Hamra. Sono cir­con­da­ti da un grup­pet­to di ira­che­ni sor­ri­den­ti: don­ne, bam­bi­ni ma anche uomi­ni che fino a ieri li guar­da­va in cagne­sco. A con­fer­ma dell’accresciuta popo­la­ri­tà tra i loca­li, l’indicatore del con­sen­so sul lato destro del­lo scher­mo regi­stra un +7%. Schermo? Sì, per­chè Matthew e Bob si tro­va­no nel­la cit­tà vir­tua­le crea­ta dal­la University of Southern California nell’ambito del pro­get­to sopran­no­mi­na­to “SimCity Baghdad”. Il pro­ject mana­ger Matthew Bosack rac­con­ta: «L’obiettivo è adde­stra­re gli uffi­cia­li a una situa­zio­ne geo­po­li­ti­ca ad alto rischio». Attraverso un video­gio­co, i mili­ta­ri USA impa­ra­no a cono­sce­re il ter­ri­to­rio dove poi si tro­ve­ran­no in mis­sio­ne. Destreggiarsi tra stra­te­gie vir­tua­li anti­som­mos­sa e fit­ti­zi rap­por­ti con la comu­ni­tà loca­le è sicu­ra­men­te più eco­no­mi­co e pra­ti­co dell’addestramento “in car­ne e ossa”. Senza con­ta­re  l’aspetto del­la sicu­rez­za peso­na­le: è pos­si­bi­le spe­ri­men­ta­re nuo­ve tat­ti­che mili­ta­ri sen­za subir­ne mate­rial­men­te le con­se­guen­ze, rima­nen­do ben pro­tet­ti die­tro un schermo.

Fare par­ti­te a video­gio­chi in cui si simu­la la guer­ra e spa­ra­re con un joy­stick è pra­ti­ca comu­ne tra gli ado­le­scen­ti di tut­to il mon­do occi­den­ta­le. La cosa susci­ta però qual­che per­ples­si­tà quan­do a usu­fruir­ne sono que­gli stes­si ragaz­zi che, oltre a gio­car­ci, in guer­ra ci dovran­no anda­re per dav­ve­ro. «Addestrare gli uffi­cia­li a una situa­zio­ne geo­po­li­ti­ca ad alto rischio» com­por­ta neces­sa­ria­men­te un con­tat­to per­so­na­le, uma­no, fisi­co con le per­so­ne che in tale con­te­sto vivo­no ogni gior­no. Per quan­to il pro­gram­ma pos­sa esse­re arti­co­la­to, non esi­ste­rà mai l’algoritmo che descri­va come com­por­tar­si di fron­te a un com­pa­gno che sal­ta in aria su una mina, a un bim­bo ira­che­no ucci­so per erro­re da una bom­ba intel­li­gen­te. Gli “UAV” – vei­co­li aerei pilo­ta­ti a distan­za – e Simcity Baghdad sem­bra­no uni­ti da un filo ros­so: entram­bi super­tec­no­lo­gi­ci, ci illu­do­no che la guer­ra si com­bat­ta con la tastie­ra di un computer.

Se l’esercito ame­ri­ca­no vuo­le inse­gna­re ai pro­prio sol­da­ti come agi­re con­sa­pe­vol­men­te in Iraq, potreb­be affian­ca­re del­le lezio­ni sul­la cul­tu­ra di que­sto popo­lo a del­le atti­vi­tà di volon­ta­ria­to nei cam­pi pro­fu­ghi – nel­la sola Shikuk si tro­va­no più di 12 mila per­so­ne. Sarebbe un modo più vero­si­mi­le di con­fron­tar­si con una real­tà che, pur­trop­po, è tut­to fuor­ché un gioco.

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