Negli ultimi 20 anni i vertici internazionali incentrati sul “climate change” (cambiamento climatico) sono stati più di 15: tra cui Rio de Janeiro, Kyoto, Bonn e, da ultimo, Copenhagen. A fronte di questa massiccia mobilitazione è legittimo chiedersi se queste conferenze, a parte foto di politici in giacca scura e valanghe di retorica “planet saving”, producano qualche risultato concreto. Le opinioni in merito sono le più varie. Gli ecologisti più radicali puntano il dito contro una politica miope e incapace di prendere provvedimenti sul lungo periodo. Altri invece, tra cui il direttore per la sostenibilità ambientale del Vermont Andrew Jones, guardano con entusiasmo al vertice di Copenaghen, sottolineando l’importanza del cambiamento di rotta nella politica ambientale degli Usa. In entrambi i casi l’impressione è che la strada per ridurre le emissioni di CO2 sia molto ripida.
Al contrario, l’ultima inchiesta dell’Economist sul tema ambientale va nella direzione opposta: l’autorevole giornale inglese afferma infatti che «Il problema non è la mancanza di tecnologie a bassa emissione di CO2… La questione non è nemmeno economica. Investire l’1% del Pil mondiale in un progetto ben strutturato è possibile. Salvare le banche è costato il 5% del Pil mondiale» (solo qualche mese fa, con provvedimenti adottati nel giro di qualche settimana – ndr).
Vincere la sfida è più semplice e meno costoso di quanto generalmente si pensi, allora perchè non si interviene subito? Eureka, il mensile del Times dedicato alle scienze, parla di un banale problema di urgenza: «la maggior parte delle persone trova difficile credere che il riscaldamento del globo avrà un impatto diretto sulla loro vita. Una recente analisi del Pew Research Centre di Washington, mette in luce che il 75-80% degli intervistati considera il cambiamento cliamatico un argomento importante. Ma, in una lista di priorità, lo mette all’ultimo posto».
Undici degli ultimi tredici anni sono stati globalmente tra i più caldi mai registrati, con conseguenze disastrose in termini di perdita di biodiversità, approvvigionamento di cibo e acqua, soprattutto nei Paesi del terzo mondo. È responsabilità degli Stati economicamente più sviluppati farsi carico di questo fardello e non rimandare un preciso impegno comune. Quella che oggi a molti non sembra essere una priorità, tra qualche anno potrebbe rivelarsi un danno irreversibile.