La riforma del sistema sanitario americano sta vivendo le sue ore decisive. Il testo dev’essere confermato nella versione modificata dal Senato. Se tutto procede come previsto, la riforma sarà notevolmente più debole di quella auspicata da Barack Obama: non includerà infatti la “public option”, ovvero il regime di concorrenza tra sistema pubblico e colossi privati. Saranno però rivisti i meccanismi di stipula del contratto da parte delle compagnie, inserendo il divieto di negare la copertura in base alla “storia” sanitaria dell’individuo; ci sarà inoltre una stretta sui vincoli antitrust e verranno ampliati gli attuali sistemi di copertura pubblica (Medicaid e Medicare).
Gli Stati Uniti hanno il peggior sistema sanitario dell’Occidente. Nonostante costi il 16% del Pil – circa il doppio rispetto a Italia, Canada e Regno Unito – l’Organizzazione mondiale della sanità lo colloca al 37° posto nel mondo. Perché un servizio così scadente? In primo luogo, perché non tutti ne beneficiano: circa il 15% della popolazione ne è escluso – 47 milioni di americani (la riforma ridurrà i non-assicurati all’8%, senza depennare il problema). In un film del 2006 Michael Moore offrì una pittoresca analisi della situazione: le compagnie assicurative puntano a massimizzare il profitto e se ne infischiano dei milioni di americani senza assistenza sanitaria. La pellicola mobilitò l’opinione pubblica, ma l’analisi del regista trascurava il nocciolo del problema.
È bene chiedersi per quale ragione gli Stati Uniti non si siano mai dotati di un sistema sanitario pubblico. In un celebre libro di alcuni anni fa due economisti di Harvard, Alberto Alesina e Edward Glaeser, spiegavano che se un povero potesse scegliere se nascere in Europa o negli Stati Uniti, sceglierebbe senza dubbio l’Europa. Nel vecchio continente il sistema di protezione sociale (in particolare l’accesso all’istruzione primaria e la tutela dei disoccupati) è più generoso che negli Usa: i Paesi europei impiegano in media fino al 20% di Pil in più in spesa sociale rispetto all’America. I due economisti cercano spiegazioni storiche, tecniche ed economiche, ma non ne trovano. L’unica ragione possibile è la cultura e l’idea di nazione che prevale negli Stati Uniti. La tradizione americana disegna l’impegno e le abilità individuali come le uniche determinanti del successo: nelle scelte pubbliche tale idea si confermerebbe, generando un sistema economico più libero dallo Stato, in cui il peso della ricchezza prodotta individualmente è di gran lunga più rilevante di quella redistribuita. È interessante riflettere sul perché un sistema economico basato sul mercato come meccanismo che porta benessere, seleziona automaticamente i produttori efficienti, spinge al miglioramento delle tecnologie e abbassa i costi di produzione, non trovi gli stessi risultati nella sanità. Il problema non risiede nella “cattiveria” degli assicuratori o nell’incompetenza dei politici. Bensì nelle caratteristiche peculiari del settore, dove logiche di profitto e qualità dei servizi sono facilmente in contrasto.
La vicenda americana insegna che le dispute sulla preferibilità della gestione pubblica rispetto a quella privata sono inconcludenti. Nel Medioevo la riscossione fiscale era appaltata a privati che trattenevano una percentuale sulle imposte prelevate. Nei secoli ci si accorse che questa burocrazia non funzionava, così la si sostituì con apparati pubblici. Lo stesso è avvenuto per le infrastrutture essenziali (strade e ponti, un tempo di proprietà privata) e per l’istruzione primaria. Molti settori dell’economia invece hanno dimostrato di funzionare meglio sotto il controllo privato: persino l’università (che in Italia ha sempre trovato forti freni alla privatizzazione). Per la sanità l’evidenza empirica sembra suggerire l’esatto contrario. A dimostrazione che nel dibattito pubblico-privato lo scontro ideologico non serve a nulla.
Ruben Gaetani