Ci siamo. Niente di nuovo sotto il sole: le banche ricominciano a incassare profitti, i manager tornano a lauti premi, le industrie risalgono pian piano la china. Sembra che tutto ciò che è accaduto da un anno a questa parte sia stato lavato con un colpo di spugna. Ma se due più due fa ancora quattro, qualche perdente ci dev’essere: i governi e naturalmente, per discendenza, i cittadini lavoratori. La crisi finanziaria ha fatto fallire grandi nomi, antichi e nuovi del settore. Molti sono stati salvati da piani di intervento pubblico. A questi si sono aggiunti piani di aiuto per famiglie e lavoratori, negli Stati che se lo potevano permettere. Oggi l’industria finanziaria è pronta a ripartire sollevata di un gran peso, snellita da cure del settore pubblico per la maggior parte. Quindi profitti per il settore finanziario e debito per i governi. Enorme debito.
Secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale il debito pubblico dei Paesi sviluppati, che a oggi in media è del 78% in proporzione al Pil, raggiungerà nel 2014 il 108% circa. In sostanza più di un anno di produzione per ripagare il debito contratto; in media.
Il peggio sembra passato (anche se personalmente non la penso così) e si ricomincia sottovoce a parlare dei miracolosi progressi del sistema finanziario. Ipotizzando però che vi sia un altro crollo nell’arco di 5-6 anni, cosa possibile dati gli ultimi cicli di crisi, i governi non potranno più permettersi di spendere nulla. Nel caso lo facessero, rischierebbero addirittua il fallimento. La presente crisi ha infatti innalzato non solo il livello del debito pubblico, prima causa di fallimento, ma anche la disoccupazione (minor gettito) e ha indotto il tentativo di regolare il sistema finanziario. Queste sono storicamente le classiche cause di fallimento di uno Stato. Tutti comprendiamo cosa significhi per un cittadino: perdita dei propri crediti, svalutazione della propria moneta. Se uno Stato fallisce, una soluzione si trova. Ma molti Stati oggi sono sulla soglia di una bancarotta. Se la crisi si ripete, alcuni Stati crolleranno simultaneamente, scenario di difficile soluzione.
Per ovviare a questo quadro apocalittico, lo Stato per stare a galla deve tassare, incassare. Tagli alla spesa (welfare) e aumenti delle tasse su chi un lavoro ce l’ha. Tassare le imprese o le rendite finanziarie è infatti cosa poco saggia vista la competizione fiscale tra Paesi: se uno Stato tassa di meno i miei soldi o la mia impresa, chi me lo fa fare di restare? Sposto capra e cavoli.
Un’ultima categoria, immobile, inchiodata alla sua realtà manca all’appello: il lavoratore. Chi per ragioni economiche, di affetti, di trasporto non può spostarsi tanto velocemente quanto l’immateriale denaro è relegato a essere l’unico soggetto economico sul quale un moderno sistema di welfare si possa basare.
Esiste una sola soluzione, forse utopica: la speranza che un giorno le nazioni si incontrino per stilare un sistema di governance globale. Un patto che preveda un certo sistema di regolazioni e regimi fiscali simili, evitando la competizione fiscale. Un patto che sia in grado di sanzionare gli Stati che lo violino. Un patto di democrazia e civiltà.
Luca de’ Angelis
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