È stato appurato di recente, contro il luogo comune, che nel nostro Paese gli stipendi di uomini e donne sono simili a parità di qualifica (la differenza media non supera il 2%). Questo dato potrebbe in teoria rasserenare anche le più determinate femministe, se non fosse in realtà del tutto fuorviante. Bisogna infatti ricordare che nelle posizioni dirigenziali a livello nazionale la presenza delle donne è limitata al 13%. Questa percentuale già misera scende fino a un tragico 6% di quote rosa nei consigli d’amministrazione. Il problema quindi non è quanto vengano pagate le donne ma a quali posizioni abbiano accesso. A differenza di altri Paesi, come per esempio la Gran Bretagna, dove il divario retributivo in base al sesso è assai maggiore (circa 20% in media a favore degli uomini), ma le posizioni di potere sono più equamente ripartite.
In Norvegia poi la questione è stata affrontata in modo molto risoluto: dal 2006 è entrata in vigore una legge che impone alle aziende di avere almeno il 40% di membri femminili nei consigli d’amministrazione. Sono stati concessi due anni per implementare il rinnovamento e, oltre quella data (gennaio 2008), chi non è in regola chiude i battenti.
In Italia siamo dunque molto indietro, tuttavia qualche debole segnale c’è. Da giugno 2009 è partito “Valore D”: un progetto guidato da 14 grandi aziende (tra cui Fiat e Microsoft), che punta a far salire la percentuale di donne nei consigli d’amministrazione al 21%. L’iniziativa lodevole non nasce per spirito umanitario, ma in seguito alla constatazione che un mix di genere nei ruoli decisionali può aumentare le entrate economiche dell’azienda fino al 20%. Magari l’autunno difficile che abbiamo davanti potrebbe essere un’occasione preziosa per muovere qualche altro passo in questa direzione.